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Siamo nel dopoguerra, alla fine degli anni quaranta. Clelia Oitana, una sarta che lavora a Roma in una casa di mode, viene mandata a Torino, la città in cui è nata e dove ha vissuto fino ai diciassette anni, per allestire una succursale della maison
Comune a tutti i ritorni, in letteratura (che si tratti del Mattia Pascal pirandelliano, del Narratore di Proust, o del protagonista, Edmund Narraway, ne La ragazza italiana di Iris Murdoch), è la possibilità data ai personaggi di tornare sul passato, di evocarlo, e non importa se nel tentativo di cambiare la situazione presente, o per verificare scelte fatte, desideri esauditi o negati. 
Il tema del rientro, mediato come è, qui, dall’organizzazione di un lavoro, funziona prima di tutto come pratica conoscitiva, di segreti e relazioni sociali. 
La scelta dell’autore di un racconto tutto in soggettiva, con al centro personaggi e contesti marginali, rispetto ai grandi fatti della storia contemporanea, crea effetti surreali. 
Come è per le città, Roma e Torino, in cui il romanzo è in parte ambientato, e che subiscono una suggestiva inversione di ruoli. 
Se Roma non è qui la città del tirare a campare, dell’ozio, indotto o cercato, come la conosciamo in molta della narrativa e cinematografia, del secondo dopoguerra, soprattutto, Torino non è un centro industriale fra i più importanti del Nord Italia e con una forte concentrazione, e cultura, operaia.
Guerra o no, a Roma si lavora, si agisce, ci si muove. 
Certo, con modalità particolari («il discorso più filato lo facemmo a tavola al Columbia, mentre gli altri ballavano»), folcloristiche quasi («A metà di una discussione, entrava un tale, una tale, attaccava a parlar lui, ci si alzava, si diceva: “Bisogna tenerne conto”. Mancava sempre qualcuno, quello che aveva cominciato»),  modalità che si reggono sull’incomprensione, sull’improvvisazione («al telefono, con Roma non ci si poteva intendere. Mi dicevano: «Ci fidiamo; fai tu», e il giorno dopo telegrafavano che aspettassi una lettera») ma si lavora. 
È Torino ad essere indolente, statica, un posto dove avere un mestiere serve a posizionarsi, a rivestire ruoli, a chiedere favori. 
Pensiamo a Febo, l’architetto che dovrebbe aiutare Clelia nel negozio e che si allarga, invece, a cercare di farsi delle storie, e non solo con lei, come se perno della sua attività fosse il “farsi delle storie”, («Mi dovete un compenso. Stanotte la passiamo insieme»); pensiamo a  Morelli, proprietario terriero, conosciuto a Roma, in là con gli anni, tutto intento a navigare nella Torino bene in virtù delle sue pratiche mondane, e che farà per Clelia da Cicerone nei quartieri alti.
Sempre, in questo romanzo, i riferimenti dell’autore al lavoro, sono mediati dalla letteratura. Pensiamo ai vari ristoratori, cameriere e addetti ai locali che, se non fosse per le definizioni (barman), potrebbero esseri presi da commedie di due secoli prima. 
La servetta dell’albergo impicciona, cui tocca dire di farsi gli affari suoi; un oste che è, in qualche modo, anche una sorta di sensale per quel che riguarda amori e prestazioni; un altro oste che controlla astanti e territorio senza emettere verbo; Luís, in albergo, con quel vassoio sempre pronto: più caratteri, che ritratti a sfondo sociologico. 
Molte delle persone che la protagonista incontrerà vivono di rendita. Denaro prodotto da proprietà terriere,  beni di famiglia, nel caso di Momina (che è baronessa, ma si fa chiamare signora)  Mariella (che vorrebbe essere attrice), Morelli (il Virgilio dei quartieri bene). 
C’è chi ha redditi altissimi, come il padre di Rosetta Mola, «l’uomo grigio ferro», un industriale, proprietario di una fabbrica di motociclette.

Poi c’è chi fa vita da artista: è il caso di Nene e Loris. 
Gli unici, in questo romanzo, che sembrano cavare dal proprio mestiere un minimo di lucidità esistenziale, assieme a imbarazzo e frustrazione, sono l'io narrante, Clelia, che non rimane indifferente alla questione, anzi, e «io pensavo che né lei né Momina sapevano cos’è lavoro; non s’erano mai guadagnata la cena, né le calze, né i viaggi che avevano fatto e facevano. Pensavo com’è il mondo, che tutti lavoriamo per non più lavorare ma se qualcuno non lavora ci fa rabbia», e Becuccio,  il capocantiere, comunista. 
Domande, marginalità sociale, consapevolezza individuale: «No, padrona (…) Non arrivo più in là dei ceti medi. Non serve», risponderà l’uomo a Clelia, quando lei lo inviterà a una serata mondana, una presa in giro. 
Lo sguardo in soggettiva della protagonista produce effetti stravaganti anche per quel che riguarda la guerra. I bombardamenti hanno modificato il panorama urbano, la futura casa di mode nascerà davanti a una «buca paurosa».  
La guerra come spartiacque temporale: un prima e un dopo («Legge molto?» «Durante la guerra. Non si sapeva cosa fare…»), o un fastidio («l’ultima volta ch’ero stata a Torino…  i tubi eran saltati, niente bagno»).    
Quello che colpisce, in questo romanzo, e tanto più a considerare gli anni in cui è stato scritto, è la capacità dell’autore di rendere realistica la vicenda umana, quanto più è separata da ogni contesto documentario.
Centrali sono i personaggi, il linguaggio che usano, le loro scelte, le nevrosi personali, i tic. 
La salute mentale di Clelia è legata allo strappo che è stata capace di fare, anni prima, di lasciare Torino, i suoi, le amiche. 

Il contrario di Gisella, una di loro, che ha fedelmente ereditato dalla suocera un negozio, e non ha, però, energia e capacità sufficienti a farlo funzionare. Impegnate in una lunga conversazione, prendendo un caffè assieme, le due donne vedranno entrare nel locale un solo cliente, forse due. Assistiamo al loro dibattere come fossimo a teatro, o al cinema: la macchina fissa su una polverosa merceria in cui, a un certo punto, piomberà pure la figlia di Gisella. 
Non è solo lo sguardo in soggettiva della protagonista, ma anche l’isolamento in cui Pavese pone individui, gruppi, relazioni sociali, a creare, ad aumentare, l’effetto distorsivo.
Visto così, questo ritorno a casa, il rientro di Clelia Oitana a Torino, rappresenta una conferma: bene ha fatto, la ragazzina di diciassette anni, a lasciare la casa, la vita che faceva. L’invito è a dimenticare il passato. 
Il passato però sono le amiche: Gisella, Carlotta che ha fatto la vita, o forse no, «era stata ballerina in Germania, durante la guerra, più nessuno l’aveva vista».   
Si riesce a distinguere, del tutto, la propria esistenza da quella di persone cui abbiamo voluto bene, con le quali abbiamo condiviso tanto, e non solo in termini di tempo? 
A che serve cancellare quello che è stato?
E quanto dura l’effetto di una scelta? Non ce n’è sempre un’altra, ad attenderci, là fuori?
Altro elemento che favorisce l’effetto di distorsione della realtà (posti di villeggiatura, città, case, ville, come palcoscenici;  il tema del lavoro messo in scena da caratteri, l’identità di classe come la stravaganza di un Becuccio; uno stato di sofferenza che pervade tutti, senza che mai ce ne venga data una ragione; il passato in cui tutti galleggiano) vi è l’uso di un italiano piano, colloquiale, diaristico, uno stile semplice, favorito dall’uso della prima persona singolare e, tolte alcune, specifiche, modalità espressive, assolutamente attuale.
Non mancano note umoristiche, osservazioni su modi di dire, di fare, di comportarsi, di vestire. Comicità che coltiva la tragedia.
Abiti, indumenti, sciarpe, mise, assolvono alla stessa funzione del colore, nell’arte espressionista. E poi le comunità, lo stare assieme: il gruppo mondano, quello delle amiche, quello familiare, ridotti a un modo per far passare il tempo, uno fra i tanti, per chi vive di rendita, o è rimasto attaccato alle abitudini prese in guerra.
In realtà, la mondanità, lo stare assieme, le comunità, si riveleranno ben di più e di peggio che un modo per far passare il tempo, se è vero che causeranno a Nene, la pittrice, più di una crisi di nervi e a Rosetta delle crisi autodistruttive. 
Certo, sembra dirci l’autore, ci vuole di più e ben altro per causare una depressione che non un gruppo amicale, o mondano, per quanto ridotto o allargato possa essere; ci vuole l’uso di linguaggi specificamente crudeli, e non importa se o no consapevole; un lungo insistere su certe cattive abitudini; incapacità, o impossibilità, varie, dall’altra parte, di far fronte ad essi. 
Pensiamo all’organismo familiare. 
Fonte di malessere, origine di traumi e insicurezze non solo per i figli, le figlie, ma anche per i padri, le madri, che si ritrovano, tutti, preoccupati e pieni di ansia, uno nei confronti dell’altro, dell’altra, come è per la famiglia di Rosetta Mola, con quella madre che, dice la protagonista «s’era trovato il lavoro di agitarsi su quella figlia», e la figlia, Rosetta, che sembra scegliere il suicidio quasi solo per confermare le ansie parentali.
O al gruppo familiare di Gisella, ora vedova, rimasta a vivere a Torino: «s’era scelta la parte della madre che si ammazza di lavoro e non permette alle figlie di sporcarsi le mani», con l’unico esito di dare vita a due donne, due ragazze, disconnesse dalla realtà, di cui una malata, per aver ereditato dal padre morto la tubercolosi. 
Torna il tema del passato.
Collegato a quello della famiglia c’è il tema delle dipendenze. Rosetta che non riesce a staccarsi da Momina, e poco importa che siano o no andate a letto assieme; Nene e Loris, entrambi artisti, che fanno del comune campo di attività un terreno di incontro, ma molto più spesso di conflitto; la signora Mola, che dipende dalla figlia Rosetta, senza la quale la sua vita non avrebbe più senso, e così Gisella con le figlie.  
E poi l’uso delle sostanze, di alcool nella maggior parte dei casi, ma anche di antidepressivi, gli stessi cui la giovane Rosetta destinerà la sua fine. 
Il motivo dell’arte, delle sue pratiche, con quegli artisti che si parlano addosso, che hanno un sacco di tempo libero, organizzano spettacoli che forse non terranno mai, mostre, corse in macchina, recite, letture, bevute, e che studiano pochissimo («Sono parole [le loro ndR.]  come quelle dei giornali quando parlano di quadri»), sembra delineare un contesto che diverrà realtà da lì a qualche anno.  

Con questo Tra donne sole, del 1949, Cesare Pavese chiude la trilogia iniziata nel 1940 con un romanzo, La bella estate, che darà il  titolo all’intera opera. In mezzo, Il diavolo sulle colline, del 1948. Messi assieme per comunanza di temi (la giovinezza e il bisogno, “baldanzoso”, come lo chiama, di violare la norma), i tre libri raccontano vicende separate, indipendenti l’una dall’altra, come diversi sono i personaggi.  

L'opera, sempre attuale, di uno scrittore, e uno studioso, autorevole e intelligente che ha la capacità di astrazione e l’umorismo di chi ha molto vissuto con consapevole, acceso, trasporto emotivo.  

Cesare Pavese

È stato scrittore, redattore, editore, traduttore e sceneggiatore.

Nato nel settembre, del 1908, a Santo Stefano Belbo (Cuneo), il paese di origine del padre Eugenio, e il posto dove la famiglia trascorre le vacanze estive, è l’ultimo di cinque figli, ma a sopravvivere all’infanzia saranno solo lui e la sorella maggiore, Maria, nata nel 1902. 
La madre, Consolina Mesturini, viene da una ricca famiglia di commercianti della provincia di Alessandria. Il padre, cancelliere al Tribunale di Torino, muore nel 1914. 
Pavese compie gli studi medi e universitari a Torino.
Al liceo Massimo D’Azeglio ha come professore Augusto Monti, antifascista, amico di Gramsci e Gobetti, e incontra Leone Ginzburg, Mario Sturani e Tullio Pinelli. 
Appassionato di letteratura angloamericana, nel 1927 si iscrive alla facoltà di Lettere dove conosce, fra gli altri, Giulio Einaudi, Norberto Bobbio, Massimo Mila. Si appassiona a Benedetto Croce.
Nel 1930 la madre muore e lui va a vivere con la sorella, che intanto si è sposata e ha due figlie.  
Nel 1931 lavora per Bemporad, come traduttore. Collabora, come critico, alla rivista "La Cultura", che qualche anno dopo dirigerà. 
Nel 1932 si laurea con una tesi su Walt Whitman.  Si mette a fare supplenze e a dare lezioni private. 
Nel 1933, per poter insegnare nella scuola pubblica, su insistenza della sorella, racconta nel diario, si iscrive al partito fascista. Conosce Battistina Pizzardo, una giovane matematica, attivista comunista, con cui ha una relazione.
Nel 1933 nasce la Einaudi.  Pavese ha da poco iniziato la collaborazione con la casa editrice quando, nel 1934, Leone Ginzburg viene arrestato. 
L’anno dopo, con l’accusa di antifascismo, verrà preso e portato anche lui alle Nuove, il carcere di Torino. Poi a Regina Coeli, a Roma, e da lì al confino in Calabria, per tre anni. 
Ma già nel 1936, per via di una richiesta di grazia fatta, racconta ancora, su insistenza della sorella, è di nuovo nel capoluogo piemontese.
Carocci gli pubblica le poesie di Lavorare stanca.
Dal 1938 è impiegato stabilmente con l’Einaudi.
Conosce Giaime Pintor, Natalia Ginzburg, Carlo Muscetta, Mario Alicata, Elio Vittorini. 
Ha una relazione con Fernanda Pivano, sua ex allieva, che ha conosciuto al liceo D’Azeglio.   
Il 1941 è l’anno di Paesi tuoi, accolto favorevolmente dalla critica.
Nel 1943 la casa editrice Einaudi lo invia a Roma per lavoro. 
Dopo l’8 settembre si rifugia nel Monferrato, per tornare a Torino nel ’45, a Liberazione avvenuta. 
La situazione generale, emotiva, è grave: molti dei suoi amici (Ginzburg, Pintor) sono stati ammazzati, il paese è devastato.

Pavese si iscrive al Partito Comunista e inizia a collaborare a "L’Unità". Conosce Davide Lajolo, Italo Calvino.
In quello stesso periodo, sempre per la Einaudi, torna a Roma, dove rimarrà per un anno. Incontra Bianca Garufi (con cui scriverà Fuoco grande, pubblicato postumo nel 1959).  
Nel 1947, di nuovo a Torino, pubblica i Dialoghi con Leucò, e inaugura la collana de I coralli. 
Dà vita, con Ernesto De Martino, alla Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici (detta La Viola)
Nel 1948 esce Prima che il gallo canti (composto da Il carcere e La casa in collina)
Il 1949 è l’anno della trilogia La bella estate e anche quello in cui avrà una relazione con l’attrice Constance Dowling. 
Nel 1950 pubblica La luna e falò, e vince il Premio Strega per La bella estate. Ma è stanco e provato. Scrive un articolo, sul mito, nella rivista “Cultura e realtà”, che suscita critiche e incomprensione.
Nell’agosto dello stesso anno pone fine alla sua vita in una camera d’albergo di Torino. 
Usciranno postumi il diario, epistolari, poesie inedite, racconti. Appassionato di cinema sin da ragazzo, ha scritto soggetti e recensioni. Dal romanzo Tra donne sole, Michelangelo Antonioni ha tratto, nel 1955, il film Le amiche.


Libri utili

 

(la bibliografia su Pavese è vastissima, e non c’è storia letteraria, antologia italiana del Novecento, in cui, giustamente, non sia compreso: questa nostra è solo una approssimativa selezione)

 

B. Alterocca, Pavese dopo un quarto di secolo, Torino 1974


V. Arnone, Pavese: tra l’assurdo e l’assoluto, Padova, 1998

 

V. Binetti, Cesare Pavese. Una vita imperfetta: la crisi dell’intellettuale nell’Italia del dopoguerra, Ravenna, 1998

 

E. Catalano, Cesare Pavese fra ideologia e politica, Bari, 1976

 

A. Catalfamo, Cesare Pavese: la dialettica vitale delle contraddizioni, Roma, 2005

 

G. Colombo, Guida alla lettura di Pavese, Milano, 1988 

 

S. De Paola, Gli amori sofferti di Cesare Pavese, Roma, 2013 

 

A. D’Orsi e M. Masoero (a cura di), Pavese e la guerra, Alessandria, 2004 
 
D. Fernandez, L’echec de Pavese, Paris, 1967 
 
G. Ferretti, L’editore Cesare Pavese, Torino, 2017 
 
L. Fiedler, Introducing Cesare Pavese, in “Kenyon Review, n.4, 1954 

 

R. Gigliucci, Cesare Pavese, Milano, 2001  
 
M. Guglielminetti, G. Zaccaria (a cura di), Cesare Pavese. Introduzione e guida allo studio dell’opera pavesiana: storia e antologia della critica, Firenze, 1976

 

A. Guiducci, Il mito Pavese, Firenze, 1967
 
A. Guiducci, Invito alla lettura di Cesare Pavese, Milano, 1972

 

G. Isotti Rosowski, Pavese lettore di Freud. Interpretazione di un tragitto, Palermo, 1989
 
F. Jesi, in Letteratura e mito, Torino, 1968.
 

D. Lajolo, Il vizio assurdo: storia di Cesare Pavese, Mi, 1960

 

B. Mencarini, L'inconsolabile. Pavese, il mito e la memoria, Alessandria, 2013
 

F. Mollia, Cesare Pavese: saggio su tutte le opere, Firenze, 1963

 

L. Mondo, Cesare Pavese, Mi, 1961

 

A.M. Mutterle, L’immagine arguta: lingua, storia retorica di Pavese, Torino, 1977

G. Pampaloni, Trent’anni con Cesare Pavese: diario contro diario, Milano, 1981 
 
F. Pappalardo La Rosa, Cesare Pavese e il mito dell’adolescenza, Mi, 1973
 
S. Pautasso, Cesare Pavese oltre il mito: il mestiere di scrivere come mestiere di vivere, Genova, 2000 
 
S. Pautasso, Guida a Pavese, Milano, 1980
 
R. Puletti, La maturità impossibile: saggio critico su Cesare Pavese, Padova, 1961
 
G. Remigi, Cesare Pavese e la letteratura americana. Una splendida monotonia, Olschki, Firenze, 2012
 
M. Rusi, Le malvagie analisi. Sulla memoria leopardiana di Cesare Pavese, Ravenna, 1988
 
T. Scappaticci, Tra monotonia e sperimentazione: la ricerca di sé nei romanzi di Cesare Pavese, Cosenza, 2009

V. Stella, L’elegia tragica di Cesare Pavese, Ravenna, 1969 

 

M. Tondo, Itinerario di Cesare Pavese, Padova, 1965

 

F. Vaccaneo (a cura di), Biografia per immagini: la vita, i libri, le carte, i luoghi, Torino, 1989

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