Se la scelta che Enrichetta Capecelatro, pacifista, fa, nel suo romanzo, ambientato durante la Prima guerra mondiale, di punire o premiare i personaggi, a seconda della posizione politica che incarnano, può apparire non solo scontata ma simile alla visione del mondo di un videogioco (i primi, quelli ipersemplificati, che prevedevano i buoni e i cattivi), bisogna considerare la data di uscita del libro: era il 1928, a pubblicarlo fu l'editore Ceschina, di Milano.
Con le “leggi fascistissime" del 1925/ ’26 si chiudeva l’epoca del liberalismo.
La scrittrice sembra conferire una precisa funzione storico critica alla letteratura: fare da argine alla retorica ufficiale. Non solo: l’avventurismo dei fascisti come una scelta che porterà alla catastrofe.
Siamo a Napoli, negli ultimi mesi del 1914.
Un professore di Filosofia all’università, il trentottenne, pacifista e non credente, Onorato Aldinelli, viene invitato da Dino Valeri, suo allievo, a un incontro-conversazione: si discuterà della guerra.
La conferenza si svolgerà nella parte alta della città, nella villa dei marchesi Valeri.
Nonostante che i pensieri dell’intellettuale vadano in una precisa direzione: «A uccidere e farsi uccidere, perché? Sono in gioco interessi colossali che le masse, quelle che veramente debbono fare la guerra, non conoscono neppure», la percezione della platea, dopo il suo lungo intervento, sarà tale che: «Onorato voleva rispondere, non disse nulla; si sentiva umiliato, stordito. Ma come erano state interpretate le sue parole? Ma davvero aveva inneggiato alla guerra?», scrive Capecelatro.
Il senso di confusione che caratterizza il personaggio, e prima di tutto per ciò che riguarda il linguaggio, è forse l’elemento più interessante di questo dimenticato romanzo.
A voler trovare a tutti i costi un contemporaneo parente di Aldinelli, bisognerebbe pensare, per situazioni e personaggi, a quel Rubé, di G. A. Borgese uscito nel 1921. Non solo per il senso di disagio che accomuna i due, ma anche per la situazione esistenziale in cui sono costretti a vivere.
«La parola non sa esprimere quello che si vorrebbe dire», pensa Aldinelli.
E se questo dubbio, assieme all'elemento del pacifismo, è sufficiente, per l’autrice, a far inserire il protagonista fra i giusti, non è detto però che pensarsi (o stare) dalla parte dei giusti (e dei pacifisti) significhi stare automaticamente dalla parte della ragione. Come ci dimostrerà, decenni più tardi un altro professore: quel Nicola Palumbo (interpretato da Stefano Satta Flores) che, nel bellissimo film di Scola, C’eravamo tanto amati (1974) di pace non ne troverà mai. Ma il mondo di Capecelatro è diverso, sia da quello di Borgese che da quello di Scola.
Aldinelli, diversamente da sua moglie Sara, interventista convinta, troverà a fine romanzo non solo pace ma anche amore. Una tristissima casa di riposo attende invece lei, che, per giudicare gli esseri umani non ha altro mezzo che un rigido moralismo.
Pollice in su anche per Lorenzo Oncino, sacerdote, contrario al conflitto da subito, e pieno di dubbi sulla propria vocazione: il coraggio vero lo troverà nell’abbandonare la tonaca, non nel credere nella guerra.
Ci sono poi gli studenti, allievi e allieve del professore.
Se Angelo Poggesi, nato povero, si dichiara mistico e socialista, parla quattro lingue, pensa di avere diritto a vivere senza essere sfruttato, e ci riuscirà (un altro Nicola Palumbo che ce la fa), Paolo Gucci, proveniente da una piccola borghesia di provincia, preferirà all'impegno la cocaina e la dissolutezza. E poi ancora Michele Sturbino, giovanissimo, che in guerra ci andrà fiducioso e volontario, «con la la bella faccia aperta tutta raggiante», ma verrà ucciso da uno shrapnel, e Dino Valeri, il giovane marchese appassionato di filosofia, che, confondendo il senso dell’avventura con la guerra, morirà di malaria.
Federica Magnes che studia per diventare scultrice, è interventista, al contrario di Maria Antonia Frezza, appassionata di filosofia e innamorata, non tanto segretamente, di Aldinelli.
Se la punizione per la prima ha la faccia della delusione amorosa, poiché sarà proprio la guerra a portarle via Dino Valeri (l’aveva disegnato come un Arcangelo, sentirà nel suo alito odore di putrefazione), il premio per la seconda avrà, sì, a che fare con la riuscita in amore, ma anche con una maggiore capacità di comprensione e di studio.
Aldinelli diventerà il suo compagno di vita, e, per giunta, fuori dal matrimonio poiché è già sposato.
Tra gli altri personaggi, interessanti proprio perché credibili, troviamo un chimico boemo, soprannominato il mago: Sebastiano Prokesch. Convinto come è nel valore della guerra («rafforza la fede e il carattere dei più giovani»), soffrirà non solo per via del figlio, Max, richiamato, ma lo vedrà perdersi al ritorno, senza più punti di riferimento, sedotto dai soldi e dalla mondanità.
E lui stesso, sofferente e inebetito, si vedrà sottrarre per pochi soldi, da un pescecane (così chiamato nel romanzo) un brevetto che avrebbe potuto farlo diventare ricchissimo.
Il pescecane, Oreste Formisano, come spesso gli arrivisti, e i conformisti (e come, qualche anno dopo, ci insegnerà Moravia) non ha un’opinione precisa: all’inizio appoggia la guerra, poi se ne distanzia. Sarà proprio il suo navigare a vista a fargli ottenere la ricchezza che, sin dall’inizio, si propone.
E allora: un cinico arrivismo, per quanto becero, fa meno danni di una illusione (la guerra come risoluzione dei problemi dell’umanità) mal riposta?
Pare proprio che Capecelatro la pensi così.
Se la spiegazione del titolo, Rovine di stelle, tratto da Nietzsche, la troviamo in alto a destra, sulla prima pagina, in epigrafe, nella frase che recita: “Rovine di stelle. Con queste rovine ho edificato il mio universo”, il riferimento concettuale è da ritrovarsi nella capacità, tipica degli esseri umani, di ricavare un senso, e quindi, di salvarsi, anche da un evento traumatico e terribile come la guerra.
Enrichetta Capecelatro era una nota traduttrice dal russo, Rovine di stelle ebbe un discreto successo di vendite. Qualcuno dice che con questa storia volesse rifare Guerra e pace. Io non credo. È possibile, invece, che la lingua del romanzo sia scorrevole, senza espressioni dialettali e senza esibizionismi, per la grande abitudine che Capacelatro ha al confronto con altri testi, altre letterature. E certo non è un caso che risulti così brava a imbastire conversazioni credibili, dove il parlato non è mai falso o troppo letterario.
Ancora, a proposito di descrizioni: le case, gli interni, gli esterni, i vestiti, il cibo.
È un romanzo, questo, in cui le cose, così come le relazioni che i personaggi stabiliscono con esse, hanno un’enorme importanza. L’abitazione, povera, di Sebastiano Prokesch non è meno gradevole di quella dei (ricchissimi) Valeri, costruita come è dentro a un vecchio convento: a renderla triste sarà, verso il finale, la confusione in cui l’uomo si ritrova. Sarà sufficiente una sola scodella incrinata a dare un’impressione di squallore. Così come, nella ricca casa dei Valeri basterà un eccesso di fiori nei vasi, durante la malattia di Dino, a dare un’impressione angosciosa, o di provvisorietà.
La medesima attitudine a mettere in relazione cose e personaggi l’autrice la mostra nelle accurate descrizioni di quello che circola in cucina, o nei vestiti, delle donne soprattutto. Nel brano che segue, per esempio, vediamo Maria Antonia in imbarazzo. Aldinelli è andato a trovarla all’improvviso, e a lei: «...pareva che si sentisse l'odore acido della conserva di pomodoro che la servetta aveva fatta la mattina stessa e che era ancora in cucina, sul focolare, nelle larghe scodelle di maiolica bruna».
Alla grande conoscenza che Capacelatro ha delle mode e degli usi dell’epoca si aggiunge l’abilità, tipica di un certo realismo, nel far veicolare la vicenda da oggetti, cose.
Nel pezzo che segue, il buffo modo che Maria Antonia ha di rinfrescarsi le guance «... prese la lettera di Sara e, prima di tornare nella saletta da pranzo, accostò ai vetri della finestra le sue gote che bruciavano e ce le tenne qualche momento, per rinfrescarle».
Una storia che riesce a darci il senso di un’epoca e a farlo attraverso un racconto credibile e ben scritto. Un modernissimo romanzo, e nonostante la data di uscita, che ci racconta l’orrore della guerra più che altro dal punto di vista di chi in guerra non c'è andato.
Enrichetta Capecelatro (Duchessa d’Andria)
Nata a Torino nel 1863 e morta a Napoli nel 1941, studia a Firenze col dantista Giambattista Giuliani e pubblica, giovanissima, alcune poesie. Del 1881 è il Diario dantesco tratto dalla Divina Commedia.
Traduttrice dal russo (Gogol’, Dostoevskij, Čechov, Puškin, Andreev), pubblica romanzi (Rovine di stelle, 1928), poesie (Rime, 1889/1892), saggi (Alcune considerazioni intorno al romanzo Guerra e pace di Leone Tolstoi, 1925), con lo pseudonimo di Duchessa d’Andria. Suo marito era il senatore Riccardo Carafa d’Andria.
Libri utili:
B. Croce, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Ba, 1921
T. Rovito, Letterati e giornalisti contemporanei, Na, 1922
G. Casati, Dizionario degli scrittori d'Italia, Mi, 1925
M. Gastaldi, Panorama della letteratura femminile contemporanea, Mi, 1936
M. Bandini Buti, Poetesse e scrittrici, Roma 1941