Pubblicato nel 1918 dalla Hogarth Press di Virginia e Leonard Woolf, questo Preludio non è solo tra i testi più lunghi di Katherine Mansfield ma anche quello che meglio mostra quanto congeniale sia alla scrittrice neozelandese la forma breve.
Il racconto consiste, infatti, in una serie di situazioni, in qualche modo autonome, legate tra loro dalla presenza degli stessi personaggi, che ruotano attorno alla protagonista: Linda Burnell.
È come se, attraverso l'uso di una struttura a contenitore, Mansfield si limitasse a ribadire un principio che possiamo rintracciare in tutto il suo lavoro: raccontare, scrivere, è operazione totalmente insufficiente. Narrare ha un senso solo laddove un personaggio, una relazione, un dettaglio, l'intero testo, siano in grado di produrre in chi scrive, e quindi in chi legge, un cambiamento, una modalità di conoscenza, una modifica.
Moltiplicare le vicende, in una storia, significa moltiplicare il numero di congiunture in cui infilare i personaggi e, quindi, le occasioni, di meraviglia e di conoscenza.
Le modalità di incastro?
Proprio come in un gioco, è la letteratura stessa a produrle. La letteratura: strettamente legata come è all’esistenza.
Ecco qui, allora, all’inizio di questo Preludio, due bambine: Lottie e Kezia.
Dopo un trasloco dalla città alla campagna, organizzato dalla madre - Linda Burnell, il personaggio della ‘donna esausta’, quella attorno alla quale si avvolge, qui, un po’ tutta la trama - e dalla nonna, madre di Linda, la signora Fairfield, le due piccole vengono lasciate nella vecchia casa, affidate a una vicina.
Non ci stanno sul calessino, con i beni di ‘prima necessità’. Viaggeranno dopo, col magazziniere, in serata.
A partire da qui, e per tutto il corso della narrazione, le due bambine dovranno affrontare da sole, alcune ‘microstorie’: certe più estese, altre meno.
Tra le prime: il tè con i ragazzi, figli della Samuel Josephs, che le prendono sempre in giro; più avanti, la visita alla loro vecchia casa; e poi il viaggio con l’uomo del magazzino, e il suo carretto, a notte fonda.
L'ordine non ha importanza. Non c'è evoluzione da una situazione all'altra e quando c'è è minima. Una paura superata non significa che la paura non tornerà.
La scena finale, dall'intero racconto, potrebbe trovarsi all’inizio, non cambierebbe quasi nulla.
Ogni nuova esperienza, secondo Mansfield, dà sempre accesso a una diversa consapevolezza, sì (“Tutto sembrava diverso: le case di legno dipinto erano molto più piccole che non di giorno. Molto più grandi e selvaggi i giardini”), ma solo per quel che riguarda il linguaggio e la capacità degli esseri umani di starci dentro, più, o meno, comodamente: “Stelle luminose punteggiavano il cielo e la luna incombeva sul porto, tingendo d'oro le onde”.
Ogni cosa, laddove definita, starà ad indicare in qualche modo un attraversamento ma non, necessariamente, una paura superata.
Come è per Kezia che si infila nelle stanze disabitate della sua vecchia casa senza che ce ne sia alcun bisogno, impaurita come è dall’It (la cosa), e per questo, forse, desiderosa di ritrovarlo, per l’ultima volta: “Voleva chiamare Lottie e continuare a chiamarla, mentre correva di sotto e si buttava fuori di casa. Ma la cosa (IT) era proprio dietro di lei, la stava aspettando sulla porta, in cima alle scale, in fondo alle scale, nascosta nel corridoio, pronta a slanciarsi fuori dalla porta di servizio. Dove però c’era anche Lottie”.
Una narrazione, questa, per esempio, la visita alla casa disabitata, e per quanto riguarda il legame fra due sorelle, in sé conchiusa. Con un preciso finale di racconto.
Come conchiusa è la storia che riguarda i ragazzini vicini di casa, quei Samuel Josephs, odiosi, che, da sempre, prendono in giro Kezia e Lottie. Così: “ ‘Da cosa vuoi cominciare: fragole e panna, o pane e strutto?’
‘Fragole e panna, per favore’, disse lei.
‘Ah-h-h-h’ .
Come ridevano tutti, battendo sul tavolo i loro cucchiaini”.
Anche qui, lacrime comprese, si resta colpiti a osservare l'umiliazione che è necessario provare, il sentimento, per imparare a vivere, lo spreco.
Così come impressiona vedere che ciò che conta, alla fine, e in special modo per ciò che riguarda le lacrime, è diventare brave a fingere, solo quello: "(Kezia n.d.r) Si sedette col capo chino e, quando la lacrima si staccò lentamente, la afferrò al volo con una leccatina precisa e la mandò giù, prima che qualcuno di loro potesse vederla".
Ed è un finale, anche questo.
A proposito di finzione e di personaggi, torniamo alla ‘donna esausta’ (col ‘cuore debole’: che tre gravidanze non hanno aiutato), Linda Burnell, figura centrale, abbiamo detto, e consideriamone la madre: un’anziana signora, che, nonostante l’età, sostituisce in tutto la figlia, fino quasi a parlare per bocca sua.
È lei che si preoccupa della cucina, delle bambine, della casa: la signora Fairfield.
È lei che porta sulle spalle l’impagabile orgoglio della donna che ‘ce la fa sempre’, e nonostante l’età, così che: “Quando ebbe finito, tutto nella cucina sembrava fare parte di schemi preordinati. Rimase in piedi in mezzo alla stanza, asciugandosi le mani con un panno a quadri. Poi sorrise: le pareva tutto molto carino, molto soddisfacente”.
A lei tocca, pure, consolare la figlia, Linda, per il suo stato fisico, e per quello che sarà il loro futuro.
Il sentimento dell'autrice nei suoi confronti però pare ambivalente: non sarà che tutta quella generosità non serve ad altro che a ricavare un ruolo, per sé, a Mrs. Fairfield?
Perché sorride? Di che?
Certo, è gentile. Ma chi le ha detto di applicare quegli 'schemi preordinati' alla cucina?
Perché quelli e non altri?
E, sempre a proposito di relazioni ambigue, che sembrano ciò che in realtà non sono: consideriamo il ricco marito di Linda, Stanley, quello che ha voluto per la ‘malata di cuore’, sua moglie, una nuova casa.
È lui che l’ha comprata, nel tentativo e nella speranza di vederla stare meglio.
Tutto ci viene spiegato in una sorta di lunga soggettiva, mentre l'uomo torna a casa dal lavoro, il giorno dopo il trasloco, sul suo, di calesse.
Anche le sue caratteristiche ci vengono rese note attraverso una serie di pensieri, gesti. Così: “Allungò il braccio destro e lo piegò lentamente, per sentire il muscolo. Un bagno, un bel massaggio, un sigaro in veranda dopo pranzo.
La domenica mattina sarebbero andati in chiesa, con le bambine e tutto”.
Quello che però il personaggio non dice, anche perché non ne è, probabilmente, del tutto consapevole ci verrà raccontato in seguito: il marito di Linda, sembra, è, così preso da lei, così coinvolto fisicamente, perché lei risponde sempre al suo desiderio con una forma di languore, di stanchezza, di dormiveglia, di indifferenza al limite della comicità, tutte modalità determinate, probabilmente, dalla malattia.
Ed è, forse, proprio come se quel poterla possedere, accarezzare, quasi in uno stato di semincoscienza, come contro il suo volere, la rendesse, agli occhi di lui, unica.
Nonostante che un altro dei personaggi femminili, la sorella di Linda, Beryl, piena di forze, esuberante, manifesti nei confronti del cognato, Stanley, un discreto interesse (in un altro tipo di storia sarebbe inevitabile il cosiddetto 'triangolo': è con Beryl che l’uomo litiga; è lei che ogni tanto mette la sua mano su quella di lui), qui no.
Per Mansfield, la donna con poco fiato, sempre col mal di testa, pare essere non solo la più desiderabile tra le creature, ma anche quella che assorbe, completamente, qualsiasi tipo di attenzione degli uomini.
E ancora, a proposito di storie nelle storie: quella dell’aloe (un racconto scritto già qualche anno prima, nel 1915, e intitolato proprio così: L'aloe) o di come una grande, enorme, pianta, nel giardino di una nuova abitazione, assumerà le sembianze di una nave messa lì per accogliere e proteggere, portare lontano, due donne.
Così: "Mentre stavano sui gradini, l'alto argine erboso su cui poggiava l'aloe sembrò sollevarsi, come spinto da un'onda, e l'aloe sembrò cavalcare quell’onda come una nave con i remi sollevati".
Questo bellissimo testo, che inizia con lo spostamento, dalla città a un posto isolato, di un gruppo di persone, e si chiude solo qualche ora dopo, con Beryl, la sorella ‘sana’ di Linda, che dalla nuova casa scrive una lettera all’amica Nan, è attraversato da frequenti analisi di stati d'animo.
Comune a tutti, l'ambivalenza.
Tutto ciò che è drammatico contiene, spesso, aspetti di comicità.
L'unica certezza è rappresentata dall'isolamento in cui i personaggi vivono.
Prendiamo Beryl: nella lettera, più che all’amica lontana, è a se stessa che parla.
Descrive il suo desiderio di vedere altri posti, diversi da quella casa senza niente attorno o, comunque, non frequentata come lei desidererebbe: “Ma se tu vedessi gli amici del club di Stanley, cara…”, scrive.
In questa affollata storia l'unica certezza sembra essere l'isolamento: non si parla che con sé stessi.
La trama è esile, come già detto, quasi inesistente, ma ricca di particolari, di dettagli comici. Lo è perché i personaggi sono immersi in una realtà fatta di cose, oggetti, vestiti, colori, piume, gioielli, piante, animali, creme per il viso, polli. Tutto è oggettivato, anche i corpi: ed è proprio da qui che iniziano le storie.
Come quella in cui Pat, l’uomo di fatica, uccide un’anatra tagliandogli la testa, e ogni bambina, ogni bambino, compresi quelli dei vicini (Pip e Rags, i ragazzi Trout, muniti del loro piccolo cane: Snooker), ha una reazione diversa, tutte mediate da qualcosa di fortemente personale.
O l'altra, che narra la relazione d'amore fra Alice, la giovane domestica, e il suo libro dei sogni: un opuscolo sdrucito che la ragazza si porta sempre appresso per fare pronostici.
Katherine Mansfield ha, davvero, una maniera tutta sua di far procedere le vicende: sono le cose ("i beni: di prima, o seconda, necessità"), i particolari, i dettagli fisici, a dover essere individuati, se si vuol capire qualcosa del gioco. Non c’è ordine di importanza fra animali, suppellettili, esseri umani.
Certi pappagallini da tappezzeria diventano centrali per accompagnare la relazione fra nonna e nipoti, solo che sono finti: “Attraverso un vestibolo quadrato pieno di bagagli e centinaia di pappagalli (ma i pappagalli erano solo sulla tappezzeria), scesero per uno stretto corridoio dove i pappagalli continuarono a superare in volo Kezia con la sua lampada”.
Le dita dei piedi di Pat, l’uomo di fatica, sono tutte storte. E d'altra parte, se non lo fossero, come potrebbe l'autrice identificarlo, lui e la sua “gabbia per uccelli vuota”, “per terra accanto a lui”, che “sembrava una vignetta umoristica”?
Come fare? Come fare ad andare avanti, come raccontare, senza avere nessuna pretesa di fare la morale a qualcuno?
Un’ultima cosa sul talento della grande scrittrice neozelandese: la scelta del particolare, su cui si basa di volta in volta una scena, un ritratto, non solo non è casuale, ma pare affidata a una sorta di capacità, tutta speciale, simile a quella degli strumenti che avvertono i terremoti a distanza.
L’artista è tale solo e quando osa partire da un’ipotesi sua di raccontare la vita, l'esistenza: meravigliare, colpire, stupire chi legge, attraverso lo scandalo, lo strazio, la paura e il piacere di usare le parole.
Katherine Mansfield
Nata a Wellington, in Nuova Zelanda, nel 1888, come Kathleen Beauchamp, in una famiglia borghese emigrata prima dall’Inghilterra e poi dall’Australia, è la terza di cinque sorelle e un fratello, Leslie, cui sarà molto legata.
Il padre, Harold Beauchamp, è un uomo d’affari, importatore, commerciante e direttore di banca. La moglie, Ann Dyer, madre dei ragazzi, lo ama e lo ammira. Delegata a occuparsi dei figli, invece, l’amata nonna, Margaret Isabella Mansfield Dyer, dalla quale la futura scrittrice prenderà il cognome.
Katherine va a scuola a Wellington alla Girl’s High School.
Nel 1895 vince un premio con la composizione Un viaggio per mare (A Sea Voyage).
Nel 1898 e nel 1899 escono due suoi racconti nel giornalino della scuola, Enna Blake e Una bella vigilia di Natale (A Happy Christmas Eve). Con il primo la futura scrittrice vince un premio scolastico.
Suona il piano e frequenta, senza troppo successo, l'istituto musicale di Miss Swainson, dove incontra Maata Maupuku, ereditiera maori con cui avrà una lunga relazione.
Nel 1901 incontra i gemelli Arnold e Garnet Trowell, uno violoncellista e l’altro violinista. Per un periodo, forse imitando Arnold da cui è attratta, anche Katherine proverà a suonare il violoncello.
Nel 1903 va a vivere a Londra dove, ad aprile, si iscrive al Queen’s College. Legge Tolstoj, Poe, Ibsen, D’Annunzio, Oscar Wilde. È amica di Ida Baker, si innamora di Vere Bartrick-Baker.
Fra il 1904 e il 1906 pubblica diversi racconti sul "Queen’s College Magazine" di cui diventa vice direttrice.
Inizia a tenere il Diario in modo sistematico.
Nel 1906, a Bruxelles, rivede i gemelli Arnold e Garnet Torwell: decide di lasciare definitivamente la musica per la scrittura.
I genitori la costringono a tornare in Nuova Zelanda, a Wellington, dove potrà vivere da sola.
Riprende, fra alti e bassi, la relazione con Maata Maupuku. Si lega a Edith Bendali, studentessa d'arte.
Legge Maeterlinck, Ibsen, Nietzsche e soprattutto Čecov.
Escono suoi pezzi sui mensili di Melbourne, "The Native Companion" e "Triad".
Inizia a firmarsi Katherine Mansfield.
Nel 1908 riesce a convincere il padre: tornerà a Londra.
Si stabilisce a Paddington. Rivede Garnet Trowell, il violinista, fratello di Arnold: iniziano una relazione.
Nel 1909, durante le assenze dovute alle tournée di lui, la scrittrice conosce il tenore George Bowden e lo sposa: vivranno assieme solo qualche ora.
Lei torna da Garnet, il violinista, da cui aspetta un figlio.
Nello stesso periodo, dalla Nuova Zelanda, allarmata dalla situazione, arriva a Londra la madre di Katherine, Ann Dyer: dopo aver accompagnato la figlia in un convento in Baviera, torna a casa e la disereda.
Katherine abortisce spontaneamente il figlio che aspettava da Garnet. Ha problemi di soldi: resta in Germania, dove si sposta nel villaggio termale di Bad Wörischofen. Sceglie un alloggio economico, la famosa Pensione Müller della raccolta (In a German Pension) In una pensione tedesca.
È qui che incontra il critico e traduttore polacco Florian Sobienowski. Lui è intelligente e affascinante: le trasmette una malattia venerea.
Nel 1910 Katherine torna a Londra dal marito George Bowden: lui apprezza i suoi racconti e le presenta A.R. Orage, direttore della rivista d'avanguardia, di sinistra, "The New Age", cui la scrittrice collaborerà.
Nel 1911 ha il primo attacco di tisi. Si lega al critico John M. Murry, editore della rivista "Rhythm".
Dello stesso anno è l’uscita del volume di racconti In una pensione tedesca (In a German Pension).
L’anno dopo, con Murry, fa amicizia con D.H Lawrence e la sua compagna, Frieda Von Richthofen.
Nel 1914, anche per tenere testa alla precaria situazione finanziaria, si trasferisce con Murry a Parigi.
Conosce lo scrittore Francis Carco e si lega a lui.
Quando Murry torna a Londra, lei resterà a Parigi, nella casa vuota di Carco, che intanto è al fronte.
Il 1915 è l’anno de L’aloe (The Aloe), il primo nucleo di Prelude, ma è anche quello della morte, in guerra, dell’amato fratello Leslie.
Si rifugia da sola a Cassis, nel sud della Francia.
Vive per un periodo a Bandol, a villa Pauline, Murry la va a trovare.
Nel 1916, sempre con Murry, va in vacanza in Cornovaglia dai Lawrence.
Al ritorno a Londra conosce Lady Ottoline Morrell e, tramite lei, Bertrand Russell, Lytton Strachey, Clive Bell, Dora Carrington, Aldous Huxley, J. M. Keynes, T.S. Eliot e Virginia Woolf.
Nel 1917 le viene diagnosticata la tisi.
Le viene prescritta la permanenza in Riviera, ma nel 1918 Katherine mostra segni di aggravamento.
Torna a Londra dove sposa John M. Murry.
Nello stesso anno la Hogarth Press di Virginia e Leonard Woolf stampa Prelude.
Murry e Katherine sono stabili a Londra, in una casa di loro proprietà.
Nel 1919 è il padre della scrittrice ad arrivare in visita da Wellington: litiga col genero.
Katherine si trasferisce a Ospedaletti, in Liguria, sopra Sanremo. Scrive e spedisce a John recensioni per la rivista "The Athenaeum". A tenerle compagnia c’è l’amica Ida Baker.
Nel 1920, dopo un brevissimo periodo trascorso a Londra in occasione dell’uscita di Je ne parle pas français, è a Mentone, prima in una casa di cura poi dalla cugina Connie Beauchamp, che cerca di convertirla al cattolicesimo.
Il rapporto con il marito Murry si è molto deteriorato.
Esce Bliss and Other Stories (Felicità ed altri racconti).
Nel 1921 Katherine si trasferisce a Crans-Montana, in Svizzera.
Nel 1922 è a Parigi, dove tenta una cura sperimentale della tisi, con esiti non troppo soddisfacenti.
Incontra James Joyce.
Esce a Londra Garden Party and Other Stories. Nella capitale inglese contatta Uspenskij, discepolo di Gurdjieff, la cui comunità si trova a Fontainebleau. Katherine si stabilisce nella cittadina francese.
Nel 1923, in seguito ad una grave emorragia la giovane scrittrice muore.
Di fianco a lei John Murry che, da questo momento, si occuperà di tutte le sue opere.
Usciranno postume le Poesie (Poems, 1923), e le raccolte Il nido delle colombe (The Doves’ Nest, 1923) e Qualcosa di infantile, ma di molto naturale (Something Childish but Very Natural, 1924), Novels and Novelists (una raccolta di recensioni pubblicate su "L'Athenaeum" a cura di J. M. Murry), e nel 1937 a New York la prima raccolta completa dei racconti.
M G G
Nata a Milano, nel 1957, dove vive, MGG si occupa, da quarant'anni, di traduzione dall'inglese e dallo spagnolo in ambito editoriale.
Libri utili
F.A. Alpers, Katherine Mansfield. A biography, London, New York, 1953 -1980
A. Banti, (sta in) Opinioni, Milano, 1961
P. Billé, A passion for technique: esperimento e disciplina nei racconti di Katherine Mansfield, Bologna, 1996
E. Cecchi, (sta in) Scrittori inglesi e americani, Milano, 1935 - 1947
P. Citati, Vita breve di Katherine Mansfield, Milano, 1980 - 2001
K. Fullbrook, Katherine Mansfield, Bologna, 1994
J. Gordon, Katherine Mansfield, London, Milano, 1964 - 1965
I. Gnoli Lanzetta, Katherine Mansfield. Una vita, Milano, 1984
A. Guiducci, (introduzione a) Racconti di K. M., Milano, 1988
G. Livi, (sta in) Da una stanza all’altra, Milano, 1984
A.G. Mattei, L’architettura e i frammenti: tre racconti lunghi di Katherine Mansfield, Pisa, 1984
J. Meyers, Katherine Mansfield, Milano, 1982
M. Praz, (sta in) Studi e svaghi inglesi, Firenze, 1937
F. Sanvitale, (postfazione a) Lettere e diari: pagine scelte, Milano, 1981
K.C. Tomalin, Katherine Mansfield. A secret life, London, 1987