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Verità di Bowen




"Ma per arrivare a essere se stessi bisogna prima perdere un po' di tempo". (E. Bowen, La casa a Parigi, 1935)


Lettere aperte di nascosto, rivelazioni sul passato che ritorna, scoperte casuali fatte frugando nei cassetti da bambini molto più svegli della loro età: questi gli elementi presenti spesso nelle storie di Elizabeth Bowen, importante scrittrice anglo-irlandese.

Nata a Dublino nel 1899 e morta a Hyte, nel Kent, a 73 anni, l'autrice pone spesso a tema, nelle sue storie, la scoperta di una verità riguardante la propria esistenza, il desiderio di sapere, indagini e ricerche sulla propria biografia, sulle comunità di appartenenza. Se a cambiare sono, di volta in volta, le trame e quindi gli strumenti attraverso cui la storia si snoda, identico è l’obiettivo di ogni vicenda: stabilire una qualche forma di verità.

Non importa che questa sia o meno soggettiva, Bowen, proprio come i suoi personaggi, non si ferma davanti a niente. L'unica cosa che conta è la richiesta che le voci impongono: quella di essere ascoltate.

E certo non è un caso che nelle sue opere, come in quelle dell'amica Woolf (nata nel 1882), la verità è sempre legata a una qualche forma di giustizia, compresa quella sociale.

Contemporanee alle due guerre, Woolf e Bowen sono osservatrici attente dell’epoca in cui vivono. Entrambe decise a partire dall'esperienza, praticano un incrocio di generi e di scritture, fra avanguardia e sperimentalismo, e più che alla trama, o al soggetto della storia, prestano attenzione alla forma, alla struttura, di essa.

Ne La casa a Parigi (The House in Paris), un libro del 1935, il «romanzo conversazione» sta assieme alle pagine di «diario», e la terza persona singolare convive con il pacato realismo delle «lettere».

La storia: due bambini, Leopold ed Henrietta, che fanno parte di due diverse famiglie, e i cui parenti sono presi da se stessi, dalla propria vita, e dai propri amori, devono tornare a (meglio sarebbe dire: devono trovare) una situazione di stabilità.

Si incontrano per la prima volta a Parigi, a casa della dickensiana (sorta di Miss Havisham di Grandi Speranze), immobilizzata a letto, scaltra a tremenda signora Fisher, una casa che, nonostante la raffinatezza, funziona per loro, in attesa che gli adulti decidano cosa fare, semplicemente da 'ricovero'.

Entrambi figli di famiglie benestanti, entrambi con parenti cui possono mancare l'equilibrio, la lungimiranza, la saggezza, ma non certo i mezzi, i piccoli vengono sballottati da una casa padronale all'altra, da un pizzo all'altro dell’Europa (dal Regno Unito fino all'Italia, passando per Parigi).

Vista l'età dei due piccini, nove lui e undici lei, chi legge potrebbe aspettarsi di seguire le vicende indipendentemente dalla loro consapevolezza, ma non è così.

Perché ci sono le lettere, che Leopold legge di nascosto, così come le conversazioni ascoltate, da entrambi, dietro le porte, o le domande, imposte a chiunque possa fornire informazioni, e far loro conoscere la verità.

Se l'antecedente romanzesco più prossimo è, sicuramente, la piccola Maisie del libro di Henry James, Quel che sapeva Maisie (What Maisie Knew), del 1897, qui il linguaggio e l'espressione verbale possono costituire, diventano, le fonti più immediate di apprendimento, e comunicare serve a riconoscere, così come a vedere.

Tutto un universo di gesti, di significati, sta dietro alle parole e al parlato.

Ed è attraverso la conversazione, il dialogo, silenzi compresi, che l'autrice e gli adulti nella storia, e più di tutti quelli che sbagliano, che hanno sbagliato, possono tentare di spiegare i motivi dei loro abbandoni, delle fughe per amore, delle loro assenze.

Non c'è segreto, o tradimento, non c'è niente che non possa essere liberato dai 'fantasmi' dalle 'ossessioni', perché raccontato, esplicitamente espresso.

Vige una sorta di fiducia negli esseri umani e nelle loro possibilità comunicative, in queste trame.

L’esigenza di conoscere si traduce, così, in Bowen, da una parte in analisi del percorso emotivo, strutturale, dei personaggi, e dall'altra in organizzazione della meccanica narrativa.

Tra i più importanti esponenti del modernismo, e non solo di lingua inglese, Bowen riesce a tenere assieme un interesse esplicito, unico, per l'oggetto narrativo, considerato come una vera e propria macchina meravigliosa, e il rapporto con chi legge, i lettori che, al pari dell'autrice, indagheranno su struttura, narrazione e elementi psicologici e del linguaggio.

Un romanzo importante, questo, La casa a Parigi, per anni introvabile in italiano, e ristampato nel 2015 da Sonzogno, nella traduzione di Alessandra Di Luzio. La mia edizione preferita, però, resta quella pubblicata da Essedue nel 1991, curata da Maria Stella, che ne ha anche realizzato, con Serena D’Alisera, la traduzione.


nella foto, Elizabeth Bowen

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