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Memorie del Presbiterio_edited.jpg

Fra le tante caratteristiche che rendono notevole, oltre che di piacevolissima lettura, questo romanzo, una si impone sulle altre: lo spiazzamento cui l’autore costringe continuamente chi legge. Se l’inizio, con quella riflessione che il Narratore, ormai anziano, fa sul suo passato, quell’accenno all’angelo che accompagna tutte le giovinezze («Compivo i venti, avevo la valigia del pittore sulle spalle, e un buon angelo mi guidava, un angelo che adesso chi sa dove è andato a nascondersi») sembra preludere a un romanzo di formazione, basta poco perché chi legge si ritrovi catapultato in un’altra direzione, completamente diversa da quella che gli pareva di aver intrapreso. E sorvolando su quegli accenni a figure di preti licenziosi, da cui il nostro protagonista è stato ospitato in gioventù, il primo che gli ha fatto vivere «una tragedia (...) nelle tenebre di un granaio, fra due lenzuola di colore oscuro e...», e il secondo che aveva i tratti del «prete giovane, dalla faccia color scarlatto, gran bevitore, gran cacciatore e, per conseguenza, gran parlatore», con una «vita domestica e (...) sproloquii, non rammento se più degni di Casti o di Aretino», personaggi e situazioni che sembrano iniziarci a una vicenda boccaccesca, o sul fantastico cui sembra introdurci, per converso, il «berretto da prete che si muove da solo», rivelandosi poi solo un topolino, e che fa venire in mente al nostro protagonista, l’amato E.A. Poe, vale la pena fissarsi su quella che sembra essere la forma prevalente nel libro: il romanzo giallo

Non solo perché, a poche ore dall’arrivo del giovane pittore nel paesino, inventato, di Sulzena una giovane donna, Gina, muore, ma anche perché molte sono le domande cui il Narratore, dopo solo poche pagine dall’inizio della vicenda, sembra costringere chi legge. Una conversazione sotterranea scorre, infatti, nei discorsi che don Luigi intrattiene con la sua governante, l’anziana Mansueta; così come col pettegolo farmacista, il Bazzetta, sua moglie, e la figlia; una conversazione che, più di tutto, si svolge attraverso gli sguardi silenziosi, gli improvvisi mutismi quando il Narratore entra nella stanza, o gli altrettanto muti rimproveri e gesti d’affetto che i personaggi si rivolgono l’un l’altro.

Perché, allora, così tanti segreti, attorno alla morte di Gina?

E perché la disperazione del marito sembra poggiare, più che altro, sul rimorso di non aver fatto abbastanza per prevenirla?

Cosa c’entra il sagrestano Baccio, perché quella condivisione del senso di colpa?

E ancora, che cosa lega la figura del perfido sindaco, il Deboni, al prete, don Luigi?

E cosa il sindaco Deboni e il giovane Aminta, destinato a diventare prete contro la sua volontà?

Di cosa è fatto l’amore che l’anziana Mansueta, e don Luigi stesso, provano per il giovane Aminta? 

Perché a un certo punto del romanzo decideranno di ospitarlo in casa loro, sottraendolo alla cattiveria del Deboni?  Qual è il loro passato?

Se il romanzo, la vicenda, tiene, non è solo perché il Narratore è un uomo che conosce la vita e la realtà in molti dei suoi risvolti più profondi, ma anche perché, come appassionato di letteratura, legge sia la vita che la realtà attraverso i romanzi, le trame che conosce. 

In più vive in una grande città.

E forte è, in questo libro, il contrasto, la contrapposizione irrisolta fra la città e la provincia, l’indifferenza trasparente della prima, con le sue vie larghe, affollate, i bar aperti fino a tarda notte, i quartieri nei quali ci si perde, e la tenace chiusura della seconda, fatta di pettegolezzi, di uomini e donne che si conoscono da sempre, di sentieri solitari che si perdono fra le montagne. 

La città, un territorio con cui è impossibile non immaginare un confronto. E non solo perché è da lì che il Narratore  proviene, ma perché questo libro è anche la storia di Rosilde, una giovane ballerina nata a Sulzena che andrà poi a lavorare, giovanissima, in teatro, nella grande città. 

Un romanzo che l’autore è bravo a disegnare utilizzando più modalità espressive.

A un io lirico, tipico dell’epoca, e che si esprime attraverso un linguaggio poetico, musicale, contrappone un soggetto apparentemente in grado di passare in rassegna la realtà, a partire da un’analisi psicologica e sociale. 

Apparentemente, perché la realtà del romanzo di Praga è prima di tutto letteraria, e non solo per la struttura, una storia che ne contiene tre,  ma anche, soprattutto, per i continui riferimenti, accenni, ad altri autori, temi, testi, da Cervantes a Goethe, passando per Cesti, Aretino e Poe.

Non indifferente è l’attenzione che lo scrittore dedica ai libri nel loro aspetto più materiale, le biblioteche, o alle storie, le trame, che qui diventano più cose: un originale modo per giudicare le persone («Le novanta volte su cento voi potete giudicare del carattere, delle abitudini, degli affetti di un uomo dal frontispizio dei volumi schierati nella sua libreria»), un modo per distruggere se stessi («…con esse cominciò ad insinuarsegli nell'animo il veleno che dalle pagine sublimi del Werther e dell'Ortis si era versato in tutta la letteratura dell'epoca»), una maniera per segnare il trascorrere del tempo (« la scatola, ndr, conteneva dei ricordi: una fettuccia tricolore, una palla di fucile, un mazzolino di fiori appassiti, un piccolo volumetto di Tacito, stampato a Parigi nel 1665…») o semplicemente una modalità per esercitare una, forse indebita, autorità («lì, ndr, era venuto a sedersi il terribile sindaco, armato di un grosso volume nero nero»).

E letterari sembrano essere anche quegli strani personaggi minori, deformi o infelici (il fratello rachitico del Deboni; l’abatino dagli occhi azzurri, che troverà nell’amore la sua rivalsa; il chierico gobbo ; la moglie e la figlia del farmacista, la prima «lunga lunga» e la seconda «rotonda e goffa») che popolano la trama.

Uscito nel 1877, quando Emilio Praga era già morto da diversi anni, fu affidato alle cure degli amici Roberto Sacchetti, che ne terminò la stesura, e di Antonio Galateo, che si occupò dell’introduzione.  Uno dei romanzi italiani più originali del secondo ottocento.

Emilio Praga

Nato a Milano (Gorla), nel 1839 da Giuseppe, ricco proprietario di una conceria di pelli, e da Maria Susani, entrambi appassionati di arte e di poesia. Il padre è amico di Carlo Porta, la madre conosce le contesse Dandolo e Maffei, che hanno due dei più importanti salotti letterari della città.

Il futuro scrittore conosce, da giovanissimo, gli uomini e le donne che frequenterà poi per tutta la vita, e che spesso lo aiuteranno, i maggiori esponenti della scapigliatura milanese: Cletto Arrighi e i fratelli Boito,  Antonio Ghislanzoni, Carlo Dossi e Igino Ugo Tarchetti.   

Interrompe a metà gli studi umanistici cui i genitori lo avevano indirizzato, il padre lo avrebbe voluto avvocato, e, dopo aver preso lezioni dal pittore Luigi Riccardi per un periodo, dal 1857 è in viaggio per l’Europa. 

Visita la Francia del sud, le Fiandre, i Paesi Bassi, e risiede a Parigi per qualche tempo.

Entusiasta ammiratore di Baudelaire, De Musset, Hugo e, per quel che riguarda la pittura, di Corot, Courbet e Delacroix, scrive anche pezzi di critica d’arte.  

Tornato a Milano nel 1859, espone nello stesso anno a Brera, e pubblica nel 1862 la raccolta di versi Tavolozza.

Il  1862 è anche l’anno del matrimonio con Annetta Benfereri e della nascita del figlio Marco. 

Nel 1863 viene rappresentata a Torino Le madri galanti, una commedia scritta con Arrigo Boito,  e una intelligente presa in giro di costumi e convenzioni dell’aristocrazia dell’epoca. Conosce Giovanni Faldella, Giuseppe Camerana.

Scrive il libretto I profughi fiamminghi, musicato da Franco Faccio.

Nel 1864, sempre con Arrigo Boito, fonda e dirige la rivista  “Figaro”.

Nello stesso anno muore il padre. Il dissesto economico che ne deriva sconvolge completamente la vita di Praga. Con l’aiuto degli amici pubblica un altro volume di poesia, Penombre.

Nel 1865 ottiene, per intercessione della contessa Maffei, una cattedra di Letteratura poetica e drammatica al Conservatorio di Milano. Svolge il suo lavoro in modo discontinuo, con frequenti assenze.

Pubblica sulla “Rivista minima” le note di viaggio e i brevi saggi Schizzi a penna.

Nel 1866, allo scoppio della Terza guerra d’indipendenza, si arruola con Arrigo Boito e Franco Faccio tra i volontari garibaldini.

Nel 1867 esce un’altra raccolta poetica, Fiabe e Leggende. 

Nello stesso anno pubblica il romanzo breve Due destini sulla rivista “Il Pungolo”, e scrive per il teatro Il capolavoro d’Orlando.

Pubblica recensioni sulla poesia e il lavoro di Charles Baudelaire, Heinrich Heine, Alfred De Musset.

Nel 1868 sfida a duello Achille Bizzoni, direttore di un giornale all’epoca molto letto, il “Gazzettino Rosa”, che in un pezzo di cronaca mondana l’aveva definito «un fallito», ma il giornalista gli oppone un netto rifiuto, motivando la scelta con l’eccessiva fragilità fisica e psichica dello scrittore. 

Nel 1869 scrive il libretto Il giudizio d’Oreste, e l’anno dopo il dramma Fantasma, forse ispirato a Teresa Raquin di Émile Zola,  musicati entrambi da Andrea Ferretto. 

Del 1870 è anche L’avvocato Patelin, tratto probabilmente da La Farce de Maître Pathelin di François Villon, che viene messo in musica da  Achille Montuoro.

Esce su “Il Pungolo” il racconto Tre storie in una.

Nel 1871 pubblica il Democrit, una commedia di argomento greco in versi milanesi. 

Nel 1872 fa una revisione del libretto che sei diversi autori hanno tratto da I Promessi sposi, di Alessandro Manzoni, e che verrà messo in musica da Amilcare Ponchielli. 

Scrive Il viandante, probabilmente ispirato a Le passant di François Coppée, poi musicato da Giulio Litta.

Tra il 1872 e il 1873 si separa dalla moglie e dal figlio. 

Ha problemi di dipendenza, dal vino, dagli stupefacenti. Va a vivere a Porta Genova, in una casa che gli mette a disposizione suo fratello Eugenio.

Muore nel 1875 a Milano.

Sulla rivista “Il Pungolo”, nel 1877, e nel 1881 in volume con l’editore Casanova di Torino esce, postumo, a cura degli amici, il romanzo Memorie del presbiterio. Scene di provincia.  

Postumi escono anche, per il teatro, nel 1875, il dramma in versi Altri tempi!,  nel 1876, il libretto Atala musicato da Giuseppe Gallignani, e poi Edmond Dantés, tratto dal romanzo di Alexandre Dumas Il conte di Montecristo, con interventi di Franco Fontana e le musiche di Raffaele Dell’Aquila.

Il 1878 è l’anno di uscita della raccolta poetica, Trasparenze.  

Del 1879 è Maria Tudor, musicato da Antonio Carlo Gomes. 

Lo stesso Gomes ha musicato, di Praga, nel 1884, le canzonette Bella tosa e Il brigante.  

Nel 1883 esce il poema drammatico Paolo.

Del 1888 è la romanza L’ultimo bacio di Francesco Paolo Tosti su testo di Emilio Praga. 

Libri utili

B. Croce, La letteratura della nuova Italia, Bari, 1947

E. Circeo, Emilio Praga romantico decadente, Roma, 1958

G. Farinelli, La Scapigliatura. Profilo storico, protagonisti, documenti, Roma 2003

G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, 1967

A. Marinari, Emilio Praga poeta di una crisi, Napoli, 1969

P. Nardi, Scapigliatura, Bologna, 1968 

V. Paladino, Emilio Praga, Ravenna, 1967

 

M. Petrucciani, Emilio Praga, Torino, 1962

 

T. Scappaticci, Emilio Praga tra impegno e intimismo, Frosinone, 1986.

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