
Una delle cose che più impressionano in questo racconto lungo di Henry James è l’uso dei numeri. Non tanto l’estrema precisione nell’indicare il tempo che passa: l’intervallo fra gli incontri dei protagonisti («sei mesi», «una settimana»), la durata di una malattia, («quindici giorni»), o il passaggio fra un gesto e l’altro («…cinque minuti dopo») ma, per esempio, la presenza del numero tre (e suoi multipli): in tre mesi, infatti, Stransom andrà tre volte, in chiesa, a cercare la donna di cui è innamorato; e quando lui si ammalerà sarà lei, invece, ad andare tre volte a chiedere di lui; si lasceranno e sarà per sei mesi; ma già tre mesi dopo lui va nel posto dove si sono incontrati per la prima volta; quindici giorni l’uomo rimane a letto, e, come se non bastasse, l’autore tiene a farci sapere che il mese in cui il protagonista si ammala è il terzo dell’anno: marzo.
Se non fosse così frequente in James la ricerca della simmetria, nel tessuto narrativo così come nelle esistenze reali, e il disordine che la vita gli contrappone, potremmo pensare a un puro e semplice caso. Ma poiché, invece, nell’opera di questo autore l’ossessione per il senso delle proporzioni, per il particolare, è tale da venir scalfita solo dai corpi e dalle istanze che essi provano, consideriamo buona la tesi che Henry James nei suoi libri non lasciasse al caso proporzioni e particolari: e che, anzi, ne fosse ossessionato.
Solo la materia, gli esseri viventi in carne e ossa, o gli enti cui essi assomigliano, i fantasmi, e le emozioni che provocano, sono in grado di sciogliere le ossessioni, l’impaccio egocentrico di autore e personaggi.
L’inizio e la fine della vita non sono che un accidente.
Uscito nel 1895 in un volume, intitolato The Terminations, che comprendeva altri tre racconti (e pubblicato in italiano per la prima volta nel 1934, con la traduzione di Gerolamo Lazzeri), L’altare dei morti è certamente un testo che ha al suo centro il tema dei defunti, ma è prima di tutto una lunga, bellissima, riflessione sulla gelosia e il senso del possesso negli esseri umani, vivi, un testo articolato e profondo sul senso dell’esistenza e sulla passione, compresa quella amorosa.
È un libro sul tempo, altro tema caro all’autore americano, come elemento in cui siamo immersi e che passa («il volto dell’amico incontrato per caso, dopo una separazione, segna, quadrante espressivo, l’ora che abbiamo cercato di dimenticare») cui solo l’arte come ricerca di ordine e proporzioni, può porre rimedio, e anche sul tempo come possibilità di individuazione, appuntamento, tappa precisa in un’esistenza che non avrebbe, altrimenti, alcun limite o punto di riferimento. Non c’è romanzo, racconto, breve testo in cui James non sia estremamente preciso, da questo punto di vista. L’età, le stagioni, gli anni, i mesi, le ore, i giorni, il quadrante dell’orologio. Quasi come se la specificazione all’interno del discorso narrativo fosse essenziale anche per tutto ciò che esiste e palpita al di fuori di esso.
Incontriamo, così, Mr. Stransom, il protagonista di questo L’altare dei morti, per la prima volta, alla vigilia dell’anniversario della morte della donna amata, l’unica. Mary Antrim, destinata a diventare sua moglie, è scomparsa, poco prima del matrimonio, a causa di una febbre maligna.
Da allora, e sempre più, l’uomo si è trasformato in un essere sdoppiato e in conflitto col mondo, quello terreno. Se da una parte è, infatti, convinto che i suoi contemporanei non facciano a sufficienza per i defunti, quelli che lui chiama Gli Altri, dall’altra è un uomo che lavora molto e che ha, nella sua attività, il centro degli interessi. A rafforzare la sua sensazione di oppressione, proprio alla vigilia del triste anniversario, fa due scoperte, entrambe riguardanti vecchi amici.
La prima: Mr. Creston, vedovo anche lui, si è risposato. La seconda, Mr. Hague, che meglio sarebbe definire un ex, temibile, amico, è morto. Se l’incontro con Mr. Creston, e la sua nuova moglie, davanti a una sfavillante gioielleria, colpirà violentemente il nostro protagonista non è tanto perché l’uomo creda nella fedeltà, o nell’istituto matrimoniale, ma per la sua ostinazione all’idea che i morti continuino a vivere.
Convinto che l’incontro non sia stato casuale e che, in qualche modo, la moglie morta di Creston abbia lavorato per farli incontrare, (in modo che «di lei si sarebbero occupati i suoi pensieri»), Stransom trascorre la serata nel tentativo di sentire la presenza della donna. L’unico dubbio che ha è sulla forma che i morti possano assumere, nella vita dei vivi.
(«Si chiese, a lungo, come gli occhi chiusi della morta potessero vivere ancora, come potessero riaprirsi nella quiete di quella camera, nella luce della lampada, tanto tempo dopo aver guardato per l’ultima volta».)
La risposta cui pensa, e probabilmente anche per lenire le sofferenze sue e della poveretta, che immagina al pari degli altri fantasmi, vittima di un’ingiustizia, è questa:«Avevano sguardi che sopravvivevano, avevano quegli sguardi che si evocano nel ricordo come si ripetono certi versi dei grandi poeti». Il giorno dopo, all’uscita dal cimitero dove ha commemorato Mary, Stransom si ferma in una chiesa, un luogo di culto cattolico. Nota una donna, a lutto, come lui.
Lo colpisce la sua indifferenza («vedeva soltanto la schiena»), è immersa nella preghiera. Ma, ancora di più, a colpirlo è la luminosità del posto, il numero di ceri esposti, l’armonia del disegno che vi legge, l’ordine che è in grado di fare a partire dagli elementi dati («…l’altare che aveva davanti divenne a poco a poco il suo proprio altare, e la stella d’ogni cero un suo voto personale: li contò, li nominò, li raggruppò, fece l’appello silenzioso dei suoi morti»).
È così impressionato dal beneficio che gliene viene, da decidere di investire parte del suo denaro nel restauro di «una nicchia chiara, senza lampada e senza attribuzione» e di riempirla di candele commemorative, di luci («una montagna di fuoco»), di farlo in memoria degli Altri, Essi, Loro: sarà l’Altare dei Morti.
Rispetto della forma e della simmetria come bisogno, quindi. Ricerca cui non si riesce a rinunciare, fonte di sofferenza per il limite implicito che include, e anche ciò che, stabilendo dei limiti, salva.
Dopo un anno, tutto trascorso fra impegni di lavoro e allestimento della «nicchia» per i defunti, l’uomo si rende conto di aver realizzato una sorta di piccolo tempio.
Nessuno dei suoi morti è stato dimenticato.
Passa un altro anno (ancora l'autore tiene alla precisione estrema, nella narrazione): il posto che era nato per colmare una sorta di disperazione è diventato il luogo dove lasciarsi trascinare «in profondità più calme delle profonde caverne del mare, e, dopo una o due di queste scomparse, quest’abitudine era diventata quella che più gli sarebbe costato d’abbandonare». Non c'è nessun altro posto al mondo dove il protagonista si senta così bene. Ed è proprio ora, quando è certo di aver fatto una cosa buona a dedicare quella «nicchia» al culto dei defunti, convinto di aver reso loro «giustizia», che rivede la donna in nero della prima volta, quella «di spalle». Pregano assieme, in silenzio, fianco a fianco, più di una volta: si riconoscono. Sarà la musica a legarli ulteriormente.
È a St. James Hall che i due si incontrano e si parlano senza però scambiarsi i nomi, né altri particolari. Sono e restano, gli Altri a parte, due sconosciuti.
Quando, il giorno dopo quella prima conversazione, l’uomo prova il desiderio di andare in chiesa, a cercare la donna che l’ha colpito, rinuncia, si ferma. La sensazione che prova è di tradire i defunti, gli Altri, a partire dai quali quella conversazione ha avuto luogo: rischierebbe così di rompere la simmetria nelle relazioni. Sceglie di rispettare l’ordine preesistente, e con esso l’intervallo di un mese, lo stesso che vigeva prima di conoscere la donna.
Ma, il giorno deputato, trenta giorni dopo, la donna non c’è.
In tre mesi (ecco i numeri) l’uomo andrà in chiesa tre volte, senza trovarla, dopo di che, «incontrando finalmente lo sguardo dell’Ignota», troverà all’uscita dal luogo di culto il coraggio per chiederle di accompagnarla.
Rimarranno ancora, per un pezzo, due sconosciuti. Lei non vuole che lui veda dove abita. «Per molto tempo, Stransom ne ignorò il nome, ed ella anche non disse mai il suo». Si ritroveranno amici, scherzeranno sul modo in cui si sono conosciuti, si riconosceranno.
E che una qualche forma di equilibrio possa esistere solo a partire dall’accettazione del cambiamento, solo consentendo a una rottura della simmetria, sembra essere la tesi sotterranea a tutto il testo. Dal momento in cui Stransom entra, per la prima volta, nella casa della donna, la situazione cambia.
E non solo, o non tanto, perché scopre che il morto da lei celebrato, l’Altro, è quel Mr. Hague che lui tanto ha odiato, e che gli ha fatto del male, ma perché si rifiuterà di celebrarlo e di portare anche lui nella «nicchia».
Per lui è imperdonabile, anzi, che lei abbia amato uno come Hague. E ancora più inaccettabile è l’idea che non ne rifiuti il ricordo, la celebrazione, e anzi, adori le «ferite» che lui le ha procurato, viva di quel ricordo.
Si lasciano. Per sei mesi. Nonostante che non si vedano più, Stransom ogni tanto si chiede se non dovrebbe «rompere la simmetria» che gli impedisce di accettare, fra i suoi fantasmi, anche Hague.
«La simmetria era un’armonia, ed ora l’idea dell’armonia lo ossessionava».
Ma a niente serve concentrarsi sull’uno: il meccanismo è rotto.
Stransom è geloso, e il suo è un sentimento terreno: «Egli possedeva un senso sufficientemente umoristico per ridere d’un riso amaro, dicendosi: “Perché mai l’ama tanto di più di quanto mi ami?”».
Anche il senso di giustizia, che lo gratificava, che gli veniva dall’aver ridato vita ad Essi, Loro, diventa impossibile da praticarsi.
Se prima di conoscere lei, l’Ignota, Mr. Stransom avrebbe potuto prendere in considerazione l’idea di perdonare Mr. Hague, e di inserirlo fra gli Altri, nell’Altare, dopo, diventa impossibile. E a nulla serve ripetersi, «Uno soltanto! Soltanto uno in più…».
È con la rinuncia che muoiono i Morti. Glielo racconta un sogno, così come la vita reale.
Le luci della chiesa sono spente, la vitalità della «nicchia», abbandonata a se stessa, messa a dura prova. Non solo Stransom non prova più, davanti a quell’altare, il senso di benessere dei primi tempi, ma il male che sente è dato dalla distanza, fisica, dell'Ignota, la Donna in nero.
Senza di lei, l’uomo deperisce.
Quando lei va a cercarlo, lui non può risponderle. Starà meglio e e andrà da lei. Si rivedranno dove tutto è cominciato: l’Altare dei morti.
In sospeso il finale.
Un bellissimo libro, la summa della narrativa jamesiana.
Henry James
Nato nel 1843, a New York, da una famiglia di origini scozzesi e irlandesi, che ha fatto fortuna negli Stati Uniti, viene educato in casa dal padre, Henry Senior, e dalla madre, Mary Walsh.
Ha quattro fratelli ma William, il maggiore, e Alice, la più piccola, sono quelli con cui il legame è più forte.
Della formazione, seguendo i costumi delle famiglie ricche dell’epoca, fanno parte anche i viaggi nelle maggiori città europee e gli studi, seppure interrotti, fra Londra, Parigi e Ginevra.
A diciannove anni, nel 1862, Henry James si iscrive a giurisprudenza ad Harvard. L’anno dopo, però, comincia a collaborare a riviste e giornali con racconti e critiche letterarie e pubblica, nel 1865, il suo primo racconto (Storia di un anno).
Nel 1871 esce, a puntate, il suo primo romanzo: Tutore e pupilla, poi ripudiato. Nel 1875 riprende a viaggiare in Europa, e si stabilisce a Parigi. Entra in contatto con Flaubert, Zola, Maupassant, Turgenev, e alcuni fra i maggiori artisti e artiste dell’epoca. Nello stesso anno pubblica Roderick Hudson, un libro la cui tematica, esperienze di arte e vita in Europa di uomini e donne d’oltreoceano, è molto cara all’autore.
Dal 1876 è a Londra. È l’anno de L’americano.
Nel 1878 dà alle stampe Gli Europei, e nel 1880/81 pubblica due dei suoi libri più belli e famosi: Piazza Washington e Ritratto di signora.
Nel 1878 esce Daisy Miller, ambientato in parte a Roma, e nel 1888 Il carteggio Aspern, che si svolge a Venezia.
Henry James, che è stato un autore molto prolifico, (22 romanzi e più di cento racconti di vario genere) ha anche scritto volumi di critica letteraria, biografie, pezzi di costume, e testi per il teatro.
Fra i pochi, ultimi scrittori, ad aver usato il romanzo per tenere assieme un sapere vastissimo, che spazia dalla psicologia alla storia dell’arte, dà alle stampe, nel 1886, due dei suoi libri meno fortunati, considerati “politici”: Le bostoniane e Principessa Casamassima.
Nel 1888 esce il romanzo breve Il Riflettore, ambientato in Italia, e nel 1890 La Musa Tragica, che ha per tema, ancora, la vocazione e l’esercizio artistico.
L’autore che non ha mai, come si sa, goduto di un grande successo di pubblico, tenta, nel 1895, la strada del teatro. L’esito non sarà favorevole.
Tenuti assieme non solo dalla data di pubblicazione, il 1897, Le spoglie di Poynton e Cosa sapeva Maisie hanno per tema l’istituzione familiare, e le difficoltà che essa comporta.
Il giro di vite e L’età ingrata (1898) indagano invece, secondo “generi” diversi, e diversi punti di vista, le relazioni fra adolescenti e esseri umani adulti.
Stabilitosi da Londra, a Rye, nel Sussex, James scrive, nei primi anni del novecento, quelli che sono da molti definiti i romanzi della sua “fase maggiore”: a una eccezionale struttura narrativa si affiancano coerenza psicologica e capacità introspettiva.
Le ali della colomba e Gli ambasciatori escono nel 1903.
Del 1904 è La coppa d’oro.
La protesta, ancora sul mondo dell’arte, è del 1911.
La torre d’avorio e Il senso del passato, incompiuti, verranno pubblicati postumi.
Henry James, che muore a Londra, nel 1916, dopo aver chiesto e ottenuto, nel 1915, la cittadinanza britannica, ci lascia, oltre alla eccezionale mole, per qualità e ampiezza, di scritti letterari e narrativi, un numero notevole di libri di viaggio, un’autobiografia incompiuta (1913-16) e i Taccuini.
Moltissime le trasposizioni cinematografiche.
Libri utili
W.H. Auden, Il jolly nel mazzo, Milano, 1973
M. Battilana, Venezia sfondo e simbolo nella narrativa di Henry James, Milano, 1971
R. Bertinetti, Le rovine circolari. S. T Coleridge, E. Brontë, H. James: immagini dell’artista nel XIX secolo, Pisa, 1982
M. Blanchot, Il libro a venire, Torino, 1969
T. Bosanquet, Henry James al lavoro, Roma, 2016
P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Parma, 1985
F. Cordelli, Partenze eroiche, Cosenza, 1980
L. Edel, Henry James, Minneapolis, 1960
L. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Milano, 1963
E. M. Forster, Aspetti del romanzo, Milano, 1963
A. Goldoni (a cura di), Comunicazione non verbale in The Pupil di Henry James, Roma, 1994
L. Isoldo, Hills and Big Halls: spazialità e scrittura in Henry James, Napoli, 1999
F. Kermode, Il senso della fine, Milano, 1972
C. Izzo (a cura di), Henry James, Milano, 1960
D. Izzo, Henry James, Milano, 1981
F. R. Leavis, La grande tradizione: George Eliot, Henry James, Joseph Conrad, Milano, 1968
A. Lombardo, Il diavolo nel manoscritto. Saggi sulla letteratura letteraria americana, Milano, 1974
B. (Arnett) e G. Melchiori, Il gusto di Henry James, Torino, 1974
F.O. Mathiessen, Le responsabilità del critico, Milano, 1966
P. Milano, Henry James o il proscritto volontario, Milano, 1948
S. Perniola, Il metaromanzo, Milano, 1966
S. Perosa, L’Euro-America di Henry James, Vicenza, 1979
M. Swan, Henry James, Milano, 1962
S. Tondo, Henry James e l’arte della lettera, Roma, 2002
L. Trilling, La letteratura e le idee, Torino, 1974
L. Villa, Esperienza e memoria: saggio su Henry James, Genova, 1989
S. Volpe, Il tornio di Binet: Flaubert, James e il punto di vista, Roma, 1991
E. Wilson, Il pensiero multiplo, Milano, 1976
V. Woolf, Per le strade di Londra, Milano, 1963
Gerolamo Lazzeri
Nato in Lunigiana, nel 1894, da una famiglia di possidenti in difficoltà economica, fa studi irregolari ma manifesta da subito interesse per la politica e la letteratura. A quindici anni è nella redazione del giornale socialista "La terra".
Nel 1911 pubblica per la casa editrice "La Modernissima", di Icilio Bianchi, nota allora per la produzione "sperimentale", un romanzo: La gioia di uccidere.
Nel 1912 inizia la sua collaborazione a "La Voce" di Papini e Prezzolini, e a "L’Unità" di Salvemini.
Nello stesso periodo pubblica due saggi sulla Lunigiana e la questione autonomista, con particolare attenzione al recupero e alla salvaguardia del territorio, sulla "Rivista ligure di scienze, lettere ed arti".
È in contatto epistolare con Benedetto Croce.
Nel 1913 Lazzeri si trasferisce a Milano, dove collabora alla rivista "Utopia", fondata nel 1911 da Benito Mussolini, allora socialista rivoluzionario.
Nel 1915 si sposa con Anne Stadlein da cui ha quattro figli.
Attivissimo durante la guerra come pubblicista, Lazzeri manda in stampa, per Sonzogno, nel 1919, un libro sul bolscevismo (Com’è nato, che cos’è, resultanze), e sulla rivoluzione russa, che avrà una grande diffusione. Nello stesso anno esce un altro suo volume: Esame di coscienza dell’epoca nostra, per lo stesso editore.
L’autore, che è un convinto antigiolittiano, esprime la propria delusione per Mussolini e per quella che considera l’involuzione fascista.
Nel 1921 pubblica un’affettuosa biografia, intitolata Filippo Turati, con un’ampia appendice di scritti e discorsi del leader riformista.
Nello stesso anno esce, per Mondadori, un altro suo romanzo, La città sulle ceneri.
Democratico convinto, Lazzeri è nel 1922 fra i fondatori del PSU, con Turati e Matteotti. Dopo un'esperienza come redattore a "Il secolo", che lascia nel 1923 per l'eccessiva "fascistizzazione", lavora nell’editoria: Sonzogno, La Modernissima, gli interlocutori. La collaborazione, intensissima, che era cominciata nel 1923 con E. Dall’Oglio, per lo Studio editoriale Corbaccio, si interrompe all’improvviso qualche tempo dopo.
Lazzeri è continuamente controllato dalla polizia fascista. Diffidato nel ’25, arrestato nel ’28, lavorerà fino al 1941, anno della morte, come traduttore e revisore per Mondadori, Carabba e Rizzoli.
Per la casa editrice Hoepli cura, nel 1940, di F. De Sanctis, la Storia della letteratura italiana: dai primi secoli agli albori del Trecento, con antologia, integrazioni, e nuove note. Uscirà postuma, nel 1942, una Antologia dei primi secoli della letteratura italiana.
Muore a Varese dove si era trasferito nel 1935.
Libri utili
O. Rapetti, C.Pugliese, G. Ricci (a cura di) Movimento socialista in Lunigiana tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, (Dalla Lunigiana all’Italia: due socialisti dimenticati, Gerolamo Lazzeri e Alberto Malatesta), 1990, Pontremoli