
Uscito in edizione integrale, per la prima volta, in pochi esemplari, nel 1919, per la Heron Press del marito John Murry, e censurato, l’anno dopo, nella raccolta Felicità e altri racconti (Bliss and Other Stories), di Constable & C., questo Je ne parle pas français, di Katherine Mansfield, affronta una delle relazioni fondamentali della nostra epoca: quella con il Male che ci è stato fatto.
O meglio, inquadra la radicale impossibilità che spesso gli uomini e le donne del nostro tempo hanno di uscire da un meccanismo pressoché automatico, una specie di 'ruota del criceto', fatto di azione e reazione.
Quanto, si chiede Mansfield attraverso la figura di uno scrittore, di fatto un magnaccia, siamo tutti, tutte, più o meno, incapaci di interrompere il cerchio del Male che ci è stato fatto?
Quanta poca buona volontà abbiamo di lasciarlo andare, quel benedetto cerchio, fatto com'è di una cifra universale, comune, irrazionale, caldo di rancore e risentimento, quanto sentiamo il bisogno di tenercelo stretto, e più di tutto per non sembrare deboli, fragili, per non dare l'impressione di avere una reazione da donne?
Perché per l’autrice non sono tanto gli episodi, i fatti, quello che ci succede, la trama, a essere importanti, ma il modo in cui ognuno e ognuna di noi reagisce, si manifesta, si comporta in relazione a un determinato avvenimento.
Il protagonista di questo Je ne parle pas français si chiama Raoul Duquette, e ha ventisei anni.
Siamo a Parigi, nel 1918. L'uomo è, per certi aspetti, un personaggio abbastanza tipico. Uno di quelli che si sentono più in credito che in debito, quando si fermano a guardare «come gira la giostra della vita», sempre in attesa del momento giusto per poter chiedere il risarcimento, pronti a parare le eventuali provocazioni e le possibili stranezze che l’esistenza ci mette davanti, attraverso il distacco e l'ironia, bravi quindi a lavorare anche sulla finzione, la recita.
Due gli assi portanti della vicenda.
Il primo: la violenza subita da Raoul, il protagonista, quando era ragazzino, certe attenzioni particolari da parte di una lavandaia («africana grassa grassa», la chiama) in cambio di una «frittellina rotonda coperta di zucchero», cioè un prima e un dopo che costituiscono lo schema logico-sentimentale, esistenziale, da cui il personaggio non riesce a uscire.
Il secondo: l’ incontro di Raoul con una donna, Mouse (Topo), un’ inglese, che è il contrario esatto di lui. È cioè, almeno in apparenza, totalmente incapace di pretendere un risarcimento, di reagire, incapace di esercitare qualsiasi forma di ironia, di distacco, di parare qualsiasi aggressione e, soprattutto, di chiedere.
In mezzo, fra Raoul e Mouse, un uomo, anche lui scrittore: Dick Harmon, anche lui inglese.
Esercitare il mestiere del magnaccia o avere qualcuno che ci protegga, e non mi importa che ci sfrutti o meno: essere pagati o pagare. Non ci sono altre possibilità nell'universo, ormai prosciugato, ridotto all' essenziale, doloroso e grandissimo, dell’ultima Mansfield, e, Come si diventa un magnaccia potrebbe intitolarsi, tanto per capirci, questo racconto.
Ma, a proposito di denominazioni, che relazione ha con la vita e con il linguaggio questo Raoul Duquette, e come si presenta? Perché, come lui stesso ci racconta non ha mai avuto bisogno di «fare le prime avances a una donna» e attrae moltissimo anche gli uomini?
Che si tratti di un uomo intelligente, nel senso che riesce a mantenere sempre una certa autonomia dalle cose, e a trovare una via d’uscita, è certo.
E questo potrebbe essere un motivo del suo fascino.
Di quello che ha fatto, della sua occupazione, di ciò che è stato, ci parla a volte in modo un po' troppo risentito, quasi con una punta di rabbia. Per esempio qui: «No, Monsieur. Sono un giovane scrittore, molto serio e estremamente interessato alla letteratura inglese moderna. E sono stato offeso, profondamente offeso…», ci racconta, a proposito di un mancato riconoscimento, di una complicità che lui si aspettava e che non c’è stata.
Uno scrittore, quindi.
Ma uno scrittore, come? Che cosa rappresenta per Duquette la letteratura?
«Sedevano su divani in stile cubista, vestite da gran sera, e ci consentivano di passar loro bicchierini di cherry brandy e di intrattenerle sulla loro poesia. Perché, da quel che posso ricordare, erano tutte poetesse».
Un modo per stare in società, una forma di rivalsa? Ma da questo punto di vista non è l’unico, non è questo che davvero caratterizza il personaggio.
«Ho altri due libri in preparazione, e poi ho scritto un romanzo a puntate, Vietato l’ingresso, che sta per uscire e mi farà guadagnare un sacco di soldi…»: chi legge sa che potrebbe essere tutta una bugia.
Era davvero pronto, quel libro?
Perché Duquette si esalta?
La letteratura come un modo per ottenere ammirazione, per fare molti soldi? Qualcosa che ha che fare col gusto della competizione, che lui vuole solo maschile, in modo da poter tagliare fuori le donne, meno portate alla gara per definizione, e quella Mouse specialmente?
Un tentativo di ottenere la gloria?
La gloria, ecco: qualcosa che risarcisca Duquette di tutto il Male che gli è stato fatto.
E qui torniamo. Non è allora, un bravo scrittore, il protagonista di questo Je ne parle pas français?
Il contrario. I successi che l’uomo ha ottenuto non sembrano affatto ingiustificati all’autrice, che ce lo descrive come dotatissimo nel fare il verso agli assaggiatori di madeleines, e anche come capacissimo a distinguere fra un Io interiore e un Io esteriore, oltre che come efficacissimo identificatore di luoghi comuni, e conoscitore della letteratura del sottosuolo.
Duquette ha talento, un talento enorme.
E allora? È proprio questo che spinge l’autrice al racconto. Perché quella che ci narra è la storia di un infedeltà. L’infedeltà alla propria vocazione, al proprio talento, in nome della devozione alla ruota del criceto.
Duquette, che ha un’abilità tutta particolare nell’identificare i caratteri, non solo, un vero e proprio dono a intercettare i sottili conflitti, i desideri più profondi che attraversano le relazioni (una coppia, in questo caso) e, più in generale, gli individui, la società, mette tutto se stesso al servizio del risarcimento: deve restituire il Male che gli è stato fatto.
E però, visto che non si passa indenni attraverso le modalità comunicative che adoperiamo, e visto che questa storia mette in scena un cambiamento, una vera e propria trasformazione, come lo ritroviamo a fine racconto il nostro protagonista?
Che cosa è diventato?
Nell'economia mansfieldiana a essere punito non è tanto il comportamento di chi, attraverso il linguaggio, rovina la vita degli altri, delle altre, c’è anche questo certo, quanto piuttosto quello di chi è sleale nei confronti di sé stesso, o sé stessa che sia.
A essere davvero equiparabile a un delitto è qui, per Mansfield, il mascheramento delle proprie reali intenzioni, la recita, un reato che può essere punito solo dando al personaggio principale una fine-di-racconto piena, oberata, di mancanze.
A latitare nella vita di Raoul, nel momento in cui la storia si chiude, non saranno solo il sesso, il gusto del cibo e della buona compagnia, ma anche quello delle buone letture.
Tutto gli sarà inibito.
Solo, in presenza di qualche vecchio laido, nel rimpianto, finirà Duquette. Eppure, continuerà a sorridere, a fare le solite battute, sempre meno spiritose e sempre più cattive, man mano che procede la storia.
A ridosso della Prima guerra mondiale la scrittrice neozelandese raffigura qui il tipo perfetto del razzista che suscita ilarità, dello sciovinista letterato, dell’uomo che del suo cinismo, e del suo disprezzo per la debolezza, fa una bandiera.
Con la solita struttura a contenitore, di pezzi che incontrano, o spostano, altri pezzi, tipica dell’autrice, procediamo all’inseguimento di attraenti e attualissime riflessioni teoriche di Duquette, per esempio sul cinema e i suoi luoghi comuni («... perché la vedo - la vita, ndr - come una straccivendola da cinema americano che si trascina, avvolta in uno scialle sudicio, con i suoi vecchi artigli aggrappati a un bastone?»), che stanno assieme a descrizioni, quanto mai precise, di stati d’animo («Per di più non ho pazienza con le persone che non riescono a lasciar andare le cose, che le inseguono piangendo. Quando una cosa è andata, è andata. È finita, basta. Lasciala perdere!») , o di vita materiale («Nella camera da letto un armadio con uno specchio lungo, un grande letto ricoperto da una trapunta gialla imbottita, un comodino da notte col ripiano di marmo…») , fino alla narrazione, anche questa tipica dell’autrice, di brevi vicende non essenziali alla trama (l’episodio nella metropolitana in cui il protagonista, in una scenetta alla Charlie Chaplin, è costretto a scappare via di corsa per non dover affrontare un marito geloso).
Questo Duquette pieno di talento, che è stato un simpatico studente di letteratura, che spesso, forse per sempre, chi lo sa, farà la parte dello studioso, dell’ uomo addetto a selezionare, catalogare, includere (escludere: Mouse, fra gli altri) scegliere, esseri umani singoli, o interi gruppi sociali («gli inglesi», «gli innamorati», «le poetesse», «gli operai»), individuati spesso, questi ultimi, e sulla base di fantasie fantasmatiche, come parte dei suoi problemi, guai, fortune o inabilità, questo Raoul capace di comunicare ciò che sente esclusivamente alle pagine di un quaderno, nella solitudine di un bar, è uno dei personaggi più veri, inquietanti e attuali della letteratura moderna.
E non solo per i monologhi che è capace di imbastire, o per lo spezzettato impressionismo con cui finisce per descrivere se stesso e la realtà, per l'ironia che continuamente esercita, ma anche per il consapevole sadismo o l’ irritato masochismo con i quali la affronta, la realtà.
Peccato per la censura: perché se è vero che in un testo la forma, la disposizione delle frasi, conta almeno quanto il contenuto, quanto è importante che Mansfield volesse chiudere la storia, questa storia, con l'esasperato disprezzo che Duquette esprime nei confronti di una donna, Madame, che non gli ha fatto niente («Mi piacerebbe cenare con lei. Anche andare a letto con lei dopo. Dovrebbe essere così pallida anche nel resto del corpo. Ma no. Avrà dei grandi nei. Si adattano a quel tipo di pelle. E io non li sopporto. Mi ricordano in qualche modo, in modo disgustoso, un certo tipo di funghi»)?
Quanto conta che volesse mettere in bocca al protagonista queste parole schifate?
E quanto è importante che il marito Murry e l’editore Seidler, di Constable & C., invece, non glielo abbiano lasciato fare?
Katherine Mansfield
Nata a Wellington, in Nuova Zelanda, nel 1888, come Kathleen Beauchamp, in una famiglia borghese emigrata prima dall’Inghilterra e poi dall’Australia, è la terza di cinque sorelle e un fratello, Leslie, cui sarà molto legata.
Il padre, Harold Beauchamp, è un uomo d’affari, importatore, commerciante e direttore di banca. La moglie, Ann Dyer, madre dei ragazzi, lo ama e lo ammira. Delegata a occuparsi dei figli, invece, l’amata nonna, Margaret Isabella Mansfield Dyer, dalla quale la futura scrittrice prenderà il cognome.
Katherine va a scuola a Wellington alla Girl’s High School.
Nel 1895 vince un premio con la composizione Un viaggio per mare (A Sea Voyage).
Nel 1898 e nel 1899 escono due suoi racconti nel giornalino della scuola, Enna Blake e Una bella vigilia di Natale (A Happy Christmas Eve). Con il primo la futura scrittrice vince un premio scolastico.
Suona il piano e frequenta, senza troppo successo, l'istituto musicale di Miss Swainson, dove incontra Maata Maupuku, ereditiera maori con cui avrà una lunga relazione.
Nel 1901 incontra i gemelli Arnold e Garnet Trowell, uno violoncellista e l’altro violinista. Per un periodo, forse imitando Arnold da cui è attratta, anche Katherine proverà a suonare il violoncello.
Nel 1903 va a vivere a Londra dove, ad aprile, si iscrive al Queen’s College. Legge Tolstoj, Poe, Ibsen, D’Annunzio, Oscar Wilde. È amica di Ida Baker, si innamora di Vere Bartrick-Baker.
Fra il 1904 e il 1906 pubblica diversi racconti sul "Queen’s College Magazine" di cui diventa vice direttrice.
Inizia a tenere il Diario in modo sistematico.
Nel 1906, a Bruxelles, rivede i gemelli Arnold e Garnet Torwell: decide di lasciare definitivamente la musica per la scrittura.
I genitori la costringono a tornare in Nuova Zelanda, a Wellington, dove potrà vivere da sola.
Riprende, fra alti e bassi, la relazione con Maata Maupuku. Si lega a Edith Bendali, studentessa d'arte.
Legge Maeterlinck, Ibsen, Nietzsche e soprattutto Čecov.
Escono suoi pezzi sui mensili di Melbourne, "The Native Companion" e "Triad".
Inizia a firmarsi Katherine Mansfield.
Nel 1908 riesce a convincere il padre: tornerà a Londra.
Si stabilisce a Paddington. Rivede Garnet Trowell, il violinista, fratello di Arnold: iniziano una relazione.
Nel 1909, durante le assenze dovute alle tournée di lui, la scrittrice conosce il tenore George Bowden e lo sposa: vivranno assieme solo qualche ora.
Lei torna da Garnet, il violinista, da cui aspetta un figlio.
Nello stesso periodo, dalla Nuova Zelanda, allarmata dalla situazione, arriva a Londra la madre di Katherine, Ann Dyer: dopo aver accompagnato la figlia in un convento in Baviera, torna a casa e la disereda.
Katherine abortisce spontaneamente il figlio che aspettava da Garnet. Ha problemi di soldi: resta in Germania, dove si sposta nel villaggio termale di Bad Wörischofen. Sceglie un alloggio economico, la famosa Pensione Müller della raccolta (In a German Pension) In una pensione tedesca.
È qui che incontra il critico e traduttore polacco Florian Sobienowski. Lui è intelligente e affascinante: le trasmette una malattia venerea.
Nel 1910 Katherine torna a Londra dal marito George Bowden: lui apprezza i suoi racconti e le presenta A.R. Orage, direttore della rivista d'avanguardia, di sinistra, "The New Age", cui la scrittrice collaborerà.
Nel 1911 ha il primo attacco di tisi. Si lega al critico John M. Murry, editore della rivista "Rhythm".
Dello stesso anno è l’uscita del volume di racconti In una pensione tedesca (In a German Pension).
L’anno dopo, con Murry, fa amicizia con D.H Lawrence e la sua compagna, Frieda Von Richthofen.
Nel 1914, anche per tenere testa alla precaria situazione finanziaria, si trasferisce con Murry a Parigi.
Conosce lo scrittore Francis Carco e si lega a lui.
Quando Murry torna a Londra, lei resterà a Parigi, nella casa vuota di Carco, che intanto è al fronte.
Il 1915 è l’anno de L’aloe (The Aloe), il primo nucleo di Prelude, ma è anche quello della morte, in guerra, dell’amato fratello Leslie.
Si rifugia da sola a Cassis, nel sud della Francia.
Vive per un periodo a Bandol, a villa Pauline, Murry la va a trovare.
Nel 1916, sempre con Murry, va in vacanza in Cornovaglia dai Lawrence.
Al ritorno a Londra conosce Lady Ottoline Morrell e, tramite lei, Bertrand Russell, Lytton Strachey, Clive Bell, Dora Carrington, Aldous Huxley, J. M. Keynes, T.S. Eliot e Virginia Woolf.
Nel 1917 le viene diagnosticata la tisi.
Le viene prescritta la permanenza in Riviera, ma nel 1918 Katherine mostra segni di aggravamento.
Torna a Londra dove sposa John M. Murry.
Nello stesso anno la Hogarth Press di Virginia e Leonard Woolf stampa Prelude.
Murry e Katherine sono stabili a Londra, in una casa di loro proprietà.
Nel 1919 è il padre della scrittrice ad arrivare in visita da Wellington: litiga col genero.
Katherine si trasferisce a Ospedaletti, in Liguria, sopra Sanremo. Scrive e spedisce a John recensioni per la rivista "The Athenaeum". A tenerle compagnia c’è l’amica Ida Baker.
Nel 1920, dopo un brevissimo periodo trascorso a Londra in occasione dell’uscita di Je ne parle pas français, è a Mentone, prima in una casa di cura poi dalla cugina Connie Beauchamp, che cerca di convertirla al cattolicesimo.
Il rapporto con il marito Murry si è molto deteriorato.
Esce Bliss and Other Stories (Felicità ed altri racconti).
Nel 1921 Katherine si trasferisce a Crans-Montana, in Svizzera.
Nel 1922 è a Parigi, dove tenta una cura sperimentale della tisi, con esiti non troppo soddisfacenti.
Incontra James Joyce.
Esce a Londra Garden Party and Other Stories. Nella capitale inglese contatta Uspenskij, discepolo di Gurdjieff, la cui comunità si trova a Fontainebleau. Katherine si stabilisce nella cittadina francese.
Nel 1923, in seguito ad una grave emorragia la giovane scrittrice muore.
Di fianco a lei John Murry che, da questo momento, si occuperà di tutte le sue opere.
Usciranno postume le Poesie (Poems, 1923), e le raccolte Il nido delle colombe (The Doves’ Nest, 1923) e Qualcosa di infantile, ma di molto naturale (Something Childish but Very Natural, 1924), Novels and Novelists (una raccolta di recensioni pubblicate su "L'Athenaeum" a cura di J. M. Murry), e nel 1937 a New York la prima raccolta completa dei racconti.
M G G
Nata a Milano, nel 1957, dove vive, MGG si occupa, da quarant'anni, di traduzione dall'inglese e dallo spagnolo in ambito editoriale.
Libri utili
F.A. Alpers, Katherine Mansfield. A biography, London, New York, 1953 -1980
A. Banti, (sta in) Opinioni, Milano, 1961
P. Billé, A passion for technique: esperimento e disciplina nei racconti di Katherine Mansfield, Bologna, 1996
E. Cecchi, (sta in) Scrittori inglesi e americani, Milano, 1935 - 1947
P. Citati, Vita breve di Katherine Mansfield, Milano, 1980 - 2001
K. Fullbrook, Katherine Mansfield, Bologna, 1994
J. Gordon, Katherine Mansfield, London, Milano, 1964 - 1965
I. Gnoli Lanzetta, Katherine Mansfield. Una vita, Milano, 1984
A. Guiducci, (introduzione a) Racconti di K. M., Milano, 1989
G. Livi, (sta in) Da una stanza all’altra, Milano, 1984
A.G. Mattei, L’architettura e i frammenti: tre racconti lunghi di Katherine Mansfield, Pisa, 1984
J. Meyers, Katherine Mansfield, Milano, 1982
M. Praz, (sta in) Studi e svaghi inglesi, Firenze, 1937
F. Sanvitale, (postfazione a) Lettere e diari: pagine scelte, Milano, 1981
K.C. Tomalin, Katherine Mansfield. A secret life, London, 1987