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 Uscito per la prima volta nel 1927 (e in Italia pubblicato nel 1934, con la traduzione di Giulia Celenza, dall’editore  Treves di Milano), questo Gita al faro (To the Lighthouse) non è solo un romanzo, un piccolo trattato sarebbe meglio definirlo, sul desiderio. 

È uno di quei testi, rari, che mostrano come non ci sia voglia, aspirazione, afflato negli esseri umani, che non si esprima anche, soprattutto, attraverso elementi oggettuali, materiali.

Cose che, proprio e in quanto essenziali al corpo, del corpo finiscono per essere un’estensione; e come tali non solo soggette all’usura del  tempo, ma oggetto di una, più o meno radicale, vera e propria trasformazione.

Se esiste una letteratura oggettuale, cosale, quella che non può darsi senza che vi siano presenti utensili, manufatti, apparecchiature, veri e propri strumenti di transizione, gli stessi che permettono l’evoluzione di un personaggio, dei personaggi, e quindi della storia, questo è uno dei romanzi più rappresentativi dell’intero genere.  

Il desiderio di James di andare al Faro è, da questo punto di vista, esemplare.  

Non solo per gli strumenti, cui il ragazzino deve affidarsi, lungo tutta la prima parte del libro, per distrarsi dalla negazione paterna, quel "No: domani no (non andremo al Faro, ndr); tuo padre ha detto di no” che attraversa buona parte della storia - le figurine da ritagliare, il libro di Grimm che la madre gli legge - ma anche per quello di cui si serve, dieci anni dopo, a situazione totalmente cambiata, ribaltata, quando sarà il padre a chiedere a lui di andare al Faro. 

Ma, James a parte, un po’ tutti i personaggi in questa storia, il racconto, in tre parti, di una famiglia e della sua casa di vacanze al mare (a Skye, nelle Ebridi), dei passaggi fra un’estate e l’altra, passaggi interrotti dalla Prima guerra mondiale, sono forniti di oggetti totemici, veri e propri lasciapassare, che permettono loro di attraversare, più o meno segnati, il panico dell’esistenza. 

Così è per la signora Ramsay e il suo scialle che, avvolto “intorno al teschio (di un cinghiale, appeso al muro ndr), più e più volte”, permetterà a Cam e James, ancora piccoli, nella prima parte della vicenda, di superare ogni paura, e di prendere sonno. 

Così è anche per i libri, che la donna -  “... era penoso a dirsi, ma (...) non aveva letto nemmeno (quelli) che le avevano offerto, nemmeno quelli a lei dedicati dal poeta in persona” - spera sempre di poter leggere, e non solo per diletto, veri e propri grimaldelli li considera, che, immagina, le permetterebbero di gestire meglio le conversazioni, quelle col marito soprattutto, o le consentirebbero di nascondere con più disinvoltura quello che pensa, e, più di tutto, quanto lui sia “infinitamente superiore” , anche se la maggior parte della gente pensava invece “ch’egli s’appoggiava a lei”. 

E ancora, a proposito di totem, quel bœuf en daube,  in apparenza un lasciapassare più modesto, e alla portata di qualsiasi Mildred (la domestica che se ne occupa, ndr), ma non meno essenziale, con cui la signora Ramsay si rende conto di aver fatto felici i suoi commensali. E pazienza per il povero bœuf.

Sempre a proposito di desiderio e suo tramite c’è la spilla, il gioiello (appartenuto alla nonna)  che Minta, la bella, giovane, ospite, perde sulla spiaggia e spera di ritrovare. O l’orologio che Paul, giovanissimo anche lui, e innamorato di Minta, porta custodito in un astuccio di pelle.

O, ancora, le scarpe del signor Ramsay, che diventano la modalità attraverso cui la signorina Briscoe storna il desiderio che l’uomo sembra provare per lei (“«Che belle scarpe!» esclamò. Si vergognava di se stessa. Lodargli le scarpe quand’egli le chiedeva conforto per un intimo affanno”).

Che ne sarà di loro?

Dove finiranno questi oggetti, l’orologio di Paul, le scarpe del signor Ramsay, le figurine di James, il teschio del cinghiale esposto, il libro dei fratelli Grimm e, con loro, i desideri, le relazioni, che, spesso senza la complicità  delle parole, hanno contributo a costruire, ramificare, incarnare? 

Perché  se è caratteristico di Paul far “...scivolare un bell’orologio d’oro fuori da un borsellino di camoscio, per mostrarlo alla padrona di casa. E tenendolo così sulla palma della mano (pensare, ndr): ‘La signora sa tutto. Non occorre che io parli’ (...) Da parte sua, la signora Ramsay, guardando l’orologio d’oro sulla mano aperta del giovane, pensava: ‘Che grossa fortuna è toccata a Minta! Sposare un uomo che porta un orologio d’oro in un borsellino di camoscio!’ ”. 

Oggetti di transizione anche i romanzi (“francesi”) del signor Carmichael. Veri e propri strumenti che gli permettono di far fronte al bisogno che prova, spesso, di starsene da solo e legati, come sono, a quel suo “vizio dell’oppio”. 

Difficile, invece, parlare degli oggetti di lavoro di Lily Briscoe (tubetto, pennelli, tela, cavalletto), la pittrice, amica di famiglia, soltanto come di mediatori del desiderio. 

E non tanto, non solo, perché invece di avvicinarla al resto del gruppo la allontanano, (“Ma quel dipinto era stato visto; gliel’avevano tolto”), ma anche perché la salvano, visto che il suo sentimento nei confronti della  signora Ramsay, e più in generale di quella famiglia, rende Lily quasi dimentica di se stessa (“perché era innamorata di tutta quella gente, innamorata di questo mondo”), nuda ed esposta. 

Da questo punto di vista, l’oggetto che funge da transizione, l’utensile attraverso cui si esprime il desiderio di Lily di riuscire a tenere assieme l’amore per i Ramsay e quello per se stessa, è una saliera.

Succede durante una cena, una scena centrale del romanzo. La donna (“... più insignificante che mai, nel suo vestitino grigio, col suo visetto vizzo e i suoi occhietti cinesi”) un po’ per reagire all’imbarazzo in cui si trova, lei, meno bella, lei, meno giovane, lei, non sposata, un po’ per stare appresso ai suoi solitari pensieri riguardo al quadro cui sta lavorando,  prende la saliera, (“sulla tovaglia damascata”), e, per due volte le cambia di posto, per tre volte la osserva.

Il movimento le serve a ricordarsi di come conformare l'albero, in un quadro. 

Il portasale trasformato in una sorta di arma, un taglierino con cui la donna intaglia, riesce a cucire su di sé, modula la serata, riesce a reggerla.

La saliera come testimone, mediatrice, di un sentimento triangolare: da una parte c’è Lily, dall’altra il suo quadro (la posizione dell'albero), e poi c’è la famiglia Ramsay.

Nel caso di Charles Tansley, invece, le armi continuano a essere i libri. Sono i volumi ciò che permette al “piccolo ateo”, come lo chiamano le ragazze, di sopportare il modo in cui viene visto dalle figlie della signora Ramsay.

Armi che diventano vero e proprio piombo, capaci di far danno, visto che la padrona di casa è terrorizzata all’idea che Tansley li lasci cadere dalla scrivania, di sera, (“si augurò che non sbattesse i libri in terra sulla testa dei suoi piccini”) come a volte succede, svegliando i piccoli, sempre loro, Cam e James, che dormono nella camera di sotto.

I libri:  veri e propri protagonisti della storia. 

Non solo perché non c’è scena in cui non siano presenti, citati, prestati, osservati, letti, amati, desiderati, o semplicemente ignorati, ma anche perché sono loro, è il loro disfacimento (“Tutti quei libri avevano bisogno d’essere stesi sul prato al sole”) a segnare il tempo che passa (“La muffa aveva cominciato a imputridire i libri e altre cose, perché un po’ per le angustie della guerra, un po’ per la mancanza di braccia, la casa era stata trascurata”).

I libri e la casa.

Ecco, ancora, un’altra, importante protagonista di questo magnifico romanzo, un essere che sta a metà fra la realtà e il soprannaturale, non tanto per gli eventi, del tutto comuni, che si svolgono al suo interno, quanto piuttosto per la capacità di attrazione che manifesta, e non solo nei confronti degli esseri umani. 

Ed è così che, in tempo di pace, la casa appartiene ai Ramsay, ma anche a una famiglia di volatili (“uno spettacolo che la divertiva sempre - pensa la signora Ramsay, ndr - le cornacchie indaffarate a scegliere un albero su cui radunarsi per la notte”), e in tempo di guerra, invece, solo a poveri topi, ladri, e a insetti stonati che vanno ad ammazzarsi da soli  (“i topi portarono via roba da rodere dietro gli assiti. Farfalle madreperlacee, rotto il bozzolo, s’ammazzarono sbattendo contro i vetri delle finestre”). 

Gli aliti di vento che fanno sbattere le porte e che attraversano gli stipiti, anche quando sono chiusi, si accompagnano alla polvere, alla luce.

Tenere assieme elementi solo in apparenza discordi, questo sembra essere uno degli obiettivi dell’autrice, se è vero che il tempo di pace si alterna con quello di guerra, il desiderio con la sua mancanza, e la giovinezza con l’età più adulta, la vita con la morte.

Da questo punto di vista fra le più belle immagini del libro, nella parte iniziale della storia, prima che tutto accada, c’è quella della domestica svizzera, Marie: non è solo capace di stare dietro, unica fra tanti personaggi del libro, a una legge della casa dettata dalla signora Ramsay, “...che le finestre dovessero stare aperte e gli usci chiusi” , ma le tiene spalancate sempre, anche di notte.

Ridurrà la signora al silenzio (“Era restata senza parole, perché nulla v’era da dire”) comunicandole la prossima morte del padre. Ed è su questo ricordo immediato,  sulla contraddizione fondamentale dell'esistenza,  che la signora Ramsay dice al figlio James, lei sempre così affettuosa, per una volta irritata, nervosa, misurandogli il calzerotto marrone, “...in tono brusco: «Sta’ fermo. Non mi annoiare»”.

Virginia Woolf

Virginia Stephen nasce a Londra nel 1882.

Suo padre Leslie è un famoso storico, critico letterario, sua madre, Julia Prinsep-Jackson, nata in India, ha lavorato come modella per pittori. I due, entrambi vedovi, hanno già avuto figli (George, Stella e Gerald Duckworth, lei; Laura Stephen, lui). Assieme ne avranno altri quattro. Virginia è la terza (prima di lei Vanessa e Toby, dopo, Adrian).  Per ciò che riguarda l'educazione, intense letture e lezioni private, come era d'uso per le ragazze dell'epoca. Nel 1895, quando la futura scrittrice ha tredici anni, la madre muore, e nel 1897 se ne va anche Stella Duckworth, una delle sorelle.

Cominciano le prime crisi nervose.

Segue corsi di greco e storia al King’s College. Nel 1904, muore il padre. Poco dopo inizia la sua collaborazione al  “The Guardian” e, coi fratelli, si trasferisce in una casa a Gordon Square, a Bloomsbury. E. M. Forster, Clive Bell, Lytton Strachey, l'economista John Maynard Keynes sono loro amici. Nel 1906 muore l'amato fratello Toby. Nel 1912 Virginia sposa Leonard Woolf, teorico della politica, pacifista, politicamente impegnato, e nel 1915 pubblica il suo primo romanzo: La Crociera. Un paio d’anni dopo fonda, col marito, la Hogarth Press. Lavora per il “Times Literary Supplement”.  

Il 1919 è l'anno del romanzo Notte e giorno. Per la Hogarth Press, escono testi e volumi di autori e autrici che si riveleranno fondamentali, e non solo per la cultura del tempo (Katherine Mansfield e T.S. Eliot, per esempio). Nel giro di cinque anni escono tre fra i testi narrativi più noti dell'autrice: La stanza di Jacob (1922), Mrs. Dalloway (1925) e Gita al faro (1927).

Del 1928 è Orlando, esplicito omaggio alla sua relazione con la scrittrice Vita Sackville -West. L'anno dopo esce il suo saggio politico forse più importante, Una stanza tutta per sé.

Nel 1931 pubblica uno dei suoi romanzi più belli e innovativi: Le onde.  Nel 1932 esce la seconda serie de Il lettore comune (la prima era uscita nel 1925), una raccolta di recensioni e saggi critici.

Tra il 1933 e il 1938 escono Flush, una biografia del cane di Elizabeth Barrett Browning,  il romanzo Gli anni, e un altro importante saggio femminista: Le tre ghinee. Si ripresentano gli stati depressivi.

La situazione in Europa è sempre più difficile. Virginia Woolf sta male. Nel 1940 pubblica Roger Fry, biografia dell’amico, artista e critico d’arte inglese.

Il romanzo Tra un atto e l’altro uscirà poco dopo la morte, per suicidio, dell'autrice avvenuta nel 1941.

Virginia Woolf, che lascia anche racconti (I giardini di Kew e Il lascito, fra i più belli), un importante Diario, e delle Lettere, essenziali per la comprensione del suo lavoro, è una figura ormai leggendaria, per storia e autorevolezza, e non solo del femminismo. È stata immortalata al cinema, nel 2002, da Stephen Daldry in The Hours (dal romanzo di M. Cunningham del 1998), da Chanya Button, nel 2018, in Vita & Virginia (dall'opera teatrale di Eileen Atkins, del 1992).

Notevole anche il film di Marleen Gorris, del 1997, Mrs. Dalloway, tratto dal romanzo omonimo.

La sua opera è stata tradotta in più di cinquanta lingue.

Libri utili

Q. Bell, Virginia Woolf, Garzanti, Milano, 1974 e 1994

R. Bertinetti, Virginia Woolf: l'avventura della conoscenza, Jaca Book, Milano, 1985

A. Brawer, Ritratto come autoritratto: Al faro di Virginia Woolf, Torino, 1987, 

E. Cecchi, Scrittori inglesi e americani: Byron, Carlyle, Melville... [et al.], Chieti, 1935

V. Curtis, Virginia Woolf e le sue amiche, Milano, 2005

E. Di Piazza, Virginia Woolf nella critica italiana, Palermo, 1975

J. Goldman, The feminist aesthetics of Virginia Woolf: modernism, post-impressionism and the political of the visual,  Cambridge, 1998

A. Guiducci, Virginia e l'Angelo, Milano, 1991

H. Lee, Virginia Woolf, Londra, 1996 

O. Palusci (a cura di), La tipografia nel salotto: saggi su Virginia Woolf, Torino, 1999

L. Rampello, Il canto del mondo reale: Virginia Woolf, la vita nella scrittura, Milano, 2005

E. Rombi, La proliferazione del senso: James Joyce, Virginia Woolf, Pisa, 1994, 

G. Spina, Il romanzo psicologico di Virginia Woolf, Genova, 1980

P. Rose, Virginia Woolf, Roma, 1980

P. Zaccaria, Virginia Woolf: trama e ordito di una scrittura, Bari, 1980

Giulia Celenza

Nata a Vasto nel 1882 e morta a Firenze nel 1933, è stata traduttrice e anglista. Oltre che di Virginia Woolf, ha tradotto e curato opere di William Shakespeare, Robert Louis Stevenson, Rudyard Kipling.

Libri utili

(un profilo di Giulia Celenza, a cura di Mario Praz, sta in) William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, Firenze, 1934

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