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Uscito a Milano per l’editore Treves, nel 1873, il romanzo Eva, di Giovanni Verga, non è solo la storia della travolgente passione d’amore fra una ballerina e un pittore, ma anche la narrazione, tragica, di una giovinezza nella seconda metà dell’ottocento, oltre che un breve trattato sul meccanismo della competizione, e non solo quella amorosa, in una situazione, come quella italiana dell’epoca, ancora divisa fra società agricola e industrializzazione.

Entrambi i protagonisti maschili, uno scrittore e un pittore, sono siciliani ma vivono a Firenze. Hanno, cioè, affrontato l’avventura di lasciare il posto dove sono nati per andare in cerca di una realizzazione personale attraverso la professione artistica.  

La storia ci viene narrata in prima persona da uno dei due, il Narratore (che non ci dirà mai il suo nome). Una maschera di Arlecchino, durante un veglione, lo ferma: è il pittore Enrico Lanti. 

I due ricordano di essersi conosciuti da bambini, in Sicilia. Il pittore ha bisogno di un favore. Chiede al Narratore di tenergli in pegno 500 lire: serviranno per fissare una scommessa. Se non riuscirà a baciare quella certa ballerina, la scommessa sarà persa, e pagherà lui una cena di 1000 lire a tutti, viceversa, se   riuscirà a baciarla, sederà a una cena pagata da altri.

Una storia che si svolge fra l’ambiente del teatro (in cui si lavora Eva), quello del mercato dell’arte (cui, in parte, appartiene Enrico Lanti), ma che è, soprattutto, la narrazione di una giovinezza perduta, e che contiene caratteristiche tali da farne uno dei migliori romanzi di formazione italiani dell’epoca.

Non è tanto la ricerca dell’autoaffermazione che muove i giovani protagonisti, o il fatto che lascino la provincia per raggiungere una grande città, quanto il meccanismo della disillusione, così ben descritto da Verga, l’atteggiamento autodistruttivo che essa porta con sé, sia per quel che riguarda l’arte che per quel che riguarda le relazioni umane.

Quando Enrico Lanti piomba, dal goffo mondo ideale in cui vive, nella materialità del desiderio fisico che lo lega a Eva, è, prima di tutto, e compiutamente felice. Sarà, man mano che il tempo procede, sempre più insoddisfatto. Non tanto perché la conoscenza, che gli ha permesso di colmare lo scarto tra desiderio e ideale, lo porterà a un problema di identità, a uno sdoppiamento, che non riuscirà più risolvere (“Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni”, racconta), ma piuttosto perché queste sue nuove acquisizioni lo faranno entrare in un conflitto indissolubile con la società in cui vive, e con il meccanismo del mercato artistico, prima di tutto. 

Non vuole diventare uno di quelli che mettono (come recita il Narratore nel Prologo) “la borsa al posto del cuore e dell’onore”.

Qui il Verga è chiaro. Sarà la forma depressiva conseguente alla disillusione, a distruggere la vita di Enrico Lanti, non la mancanza di denaro.  

Poiché se il pittore ha ragione quando racconta che “se non avessi fatto un buco nel bilancio non avrei fatto uno strappo al mio cuore” (come a dire che se avesse risparmiato le tre lire per andare a teatro, non avrebbe mai conosciuto la ballerina), è anche vero che una volta ritrovato il benessere economico, tramite un uomo incontrato per caso, per strada, qualche mese dopo essere stato lasciato da Eva, sarà più arrabbiato e aggressivo di prima. 

Per lui la realizzazione non consiste nel possedere beni e nel presenziare nei teatri con quelle e quelli che chiama, meravigliosamente, larve

Quello che non sopporta è che Eva sia tornata ad essere la donna desiderata che era un tempo. E quando lo incontriamo, all’inizio del romanzo, per la prima volta, al veglione de La Pergola, la tragedia si è, in qualche modo, già compiuta: vestito da Arlecchino, sta inseguendo la donna per rovinarla, e per rovinarsi definitivamente. Nell’impossibilità di convivere con la sua nuova identità (quella che il desiderio gli ha svelato), sdoppiato, senza la forza culturale, emotiva, per adattarsi, si è dato solo a questo distruttivo compito.  Sa che ci sarà un duello, sa che dovrà uccidere il rivale, o morire. 

La storia non finirà così, ma questo non ha importanza.

È stata proprio l’assimilazione della costumatezza, l’aver imparato a ridere “… del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari…”, a rendere il protagonista così disponibile alla dissoluzione, e alla morte.

È come se la macchina della competizione in cui tutti i personaggi sono inseriti, una macchina che prima di tutto genera irrequietezza, la stessa che regge e altera le funzioni del mercato, agisse diversamente sui soggetti. 

Il Narratore, da quel che ci è dato capire, legato come è ancora alla Sicilia, al luogo di nascita che lo riconosce, fa probabilmente la vita del possidente, ed è, sia dal punto di vista economico che da quello riguardante l’identità, protetto. Per Eva, il meccanismo competitivo è fonte di consapevolezza, entusiasmo e sicurezza.  È solo in Enrico che genera confusione.

Ma tutto questo è, lo sappiamo, impensabile senza un tessuto economico che regola tutto, professioni artistiche comprese. Vediamo, quindi, cosa è successo quando Eva ed Enrico, a metà della loro storia, si sono ritrovati senza lavoro e lui le ha proposto di tornare a fare la ballerina.  

È impossibile…Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo”, ha risposto lei. 

Quando ha smesso di fare la ballerina e si è messa a fare la mantenuta, Eva ha dimostrato sì, cinismo ma anche una istintiva conoscenza del meccanismo che ha frequentato per anni. Sa che non è solo

"…l’abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari". Quindi,  "Impossibile", risponderà ad Enrico. 

Lui, invece, quella macchina, non l’accetterà mai del tutto, così come non sarà mai del tutto inserito.  

Enrico Lanti, che si è scelto personaggio-artista (coi "capelli lunghi", che immagina di "andare a braccetto con Raffaello per le strade di Firenze"), che, in quelle vesti, ha fatto innamorare Eva, e che da lei si sentirà dire: "vi amo perché avete in cuore tutte le follie dell’arte (…) e anch’io divento come voi, non mi riconosco più!", dal gioco ne uscirà, letteralmente, morto. L’uomo non accetterà mai che i sogni della sua adolescenza si infrangano prima in un lavoro di oleografo, e poi di fotominiatore (“a dodici lire l’una”). 

Eccezionale la precisione del Verga, che «…Io ero inquieto, irascibile, dispettoso», gli fa dire. Appunto. Al Lanti non importa neanche più che alcuni dei suoi progetti politici vadano o no, in porto: “Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile”, racconta il Narratore, nel disinteresse generale.

La società moderna esige una capacità di distacco che Eva ha, e il Lanti no. A ben vedere sarà proprio il mimetismo della donna nell’affrontare l’esistenza, la sua disinvoltura, il suo carattere, a colpirlo, a renderlo fragile, a ferirlo. Quello della ballerina, per Eva, non è che un mestiere come un altro, per lei, che non è "nata duchessa", dice e ha bisogno di procurarsi da mangiare in qualche modo. 

"…se chiudo la porta in faccia a tutti quei signori sarò fischiata. E allora a voi per primo non sembrerò più bella...", gli suggerisce.

Verga riesce, qui, ad evitare molti dei luoghi comuni sull’argomento femme fatale, donna fatale che in questo romanzo si presenta come “febbre di giovanotto fatto donna”: Eva si avvicina a Enrico perché ne è sessualmente attratta. 

Per il resto, sarà proprio lei a metterlo in guardia dal possesso esclusivo e da una convivenza che, lo dice in modo esplicito, sicuramente rovinerà il rapporto. 

È una donna generosa e bella, con pochi pregiudizi. 

La competizione: ecco quindi, assieme ai personaggi in carne e ossa, l’altra grande protagonista di questo romanzo breve. Se Eva pretende, all’inizio della loro storia di essere amata dal Lanti più di quanto lui ami l’arte, se ha bisogno di sapere che nel cuore di lui è sempre la prima, lui, invece, questa competizione sembra volerla vincere, e più di tutto, con Eva, lei, che non si fa scrupoli nel trattare gli uomini come elementi del suo lavoro e che se ne va “libera per il mondo”, proprio come un’altra grande protagonista della letteratura: quell’Albertine, magnifica e vitale che porterà, qualche anno dopo, ne La Recherche di Proust, molto, troppo spesso, un altro Narratore sull’orlo dell’esaurimento nervoso. 
 

Giovanni Verga

 

Appassionato, sin da giovanissimo, di racconti e storie d’avventura, nasce a Catania, nel 1840, da una famiglia della piccola nobiltà agraria.   

Studia privatamente, e nel 1859 si iscrive a Giurisprudenza, che abbandonerà per dedicarsi alla letteratura. Nello stesso modo, qualche anno dopo, abbandonerà la Guardia nazionale presso cui ha prestato servizio al tempo dell’impresa garibaldina. Lavora a una rivista, ne fonda un’altra.  Insofferente alla disciplina, alla vita di provincia, fortemente antiregionalista, va a vivere stabilmente a Firenze (in quegli anni capitale d’Italia) nel 1869, e vi rimane fino al 1871. Conosce Luigi Capuana. Risalgono a quest’epoca due dei suoi libri di maggior successo (Una peccatrice, 1866, e Storia di una capinera, 1871). Scrive per il teatro, si appassiona alla fotografia. Dal 1872 è a Milano, dove rimarrà per più di vent’ anni.  Entra in contatto con Arrigo Boito, Emilio Praga, Federico de Roberto, Gerolamo Rovetta, è assiduo nel salotto della Contessa Maffei. Sono di questo periodo, Eva (1873), Nedda (1874), Eros (1874) Tigre reale, (1875), le maggiori raccolte di novelle (Vita dei campi, 1880 e Novelle rusticane, 1883), ma soprattutto la progettazione di un ciclo di cinque romanzi, intitolato (La marea, poi) I Vinti

Porterà a termine, come si sa, solo i primi due: I Malavoglia, (1881), e Mastro don Gesualdo (1888). 

Deluso dai risultati dell’impegno letterario e dagli esiti delle maggiori battaglie risorgimentali, raggiunta una relativa tranquillità economica solo dopo aver molto faticato per veder riconosciuti i suoi diritti sul testo, Cavalleria rusticana (che Pietro Mascagni ha messo in musica), torna a Catania intorno al 1893. Sperimentatore, si dedica alla fotografia, il cui interesse ha sviluppato negli anni. Dopo un’iniziale diffidenza per il cinema, cerca di adattare a sceneggiatura alcune sue opere. Diventa socio della casa produttrice Silentium film di Milano. 

Ha intanto pubblicato altre due raccolte di novelle, Vagabondaggio (1887), e I ricordi del capitano d’Arce (1899); un’altra uscirà nel 1894 (Don Candeloro e C.i).  Nominato Senatore nel 1920, uno dei più innovatori scrittori italiani, morirà per le conseguenze di un ictus due anni dopo. 

 

Libri utili:

 

L’intera opera di Giovanni Verga è in corso di pubblicazione presso Le Monnier (Edizione Nazionale). La bibliografia sull’autore è, comprensibilmente, molto vasta. Si rimanda al tuttora essenziale Bibliografia verghiana di G. Raya, Roma, 1972.  Di seguito sono indicati studi e volumi più noti e significativi:

A. Apicella, Verga Pirandello e Svevo, Napoli, 1997

R. Bacchelli, (sta in) Saggi critici, Milano, 1962

G. Barberi Squarotti, G. Verga. Le finzioni dietro il verismo, Palermo, 1982

R. Bigazzi, I colori del vero, Pisa, 1969

M. Bontempelli, (sta in) Sette discorsi, Milano, 1942

N. Borsellino, Storia di Verga, Bari, 1993

S. Campailla, Anatomie verghiane, Bologna, 1978

N. Cappellani, Vita di G. Verga, Firenze, 1940

L. Capuana, (a cura di M. Pomilio), Verga e D’Annunzio, Bologna, 1972

G. Cattaneo, G. Verga, Torino, 1973

B. Croce, (sta in) Letteratura della Nuova Italia, vol.3, Bari, 1973

G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Milano, 1978

E. De Francisci, A new woman in Verga e Pirandello: from page to stage, Cambridge, 2018

F. De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, Firenze, 1964 

 

G. Garra Agosta, Verga fotografo, Catania, 1991

N. Genovese, S. Gesù (a cura di) Verga e il cinema, Catania, 1996

E. Giachery, Verga e D’Annunzio: ritorno a Itaca, Roma, 1991

C. Greco Lanza, Incontro col Verga, Catania, 1983

G. Guglielmi, Ironia e negazione, Torino, 1974

S. Iannello, Le immagini e le parole de I Malavoglia, Roma, 2008

 R. Luperini, Pessimismo e verismo in G. Verga, Torino, 2009

V. Masiello, Il punto su Verga, Bari, 1999

A. Momigliano, Dante, Manzoni, Verga, Messina-Firenze, 1976

P. Pellini, Naturalismo e verismo, Firenze, 1998

G. Petronio, Restauri letterari: da Verga a Pirandello, Roma, 1990

L. Pirandello, (a cura di M. Onofri), Verga e D’Annunzio, Roma, 1993

G. Raya, Verga e il cinema, Roma, 1984

E. Rossi, La voce narrante in Verga, Pirandello, Scotellaro, Roma, 2010

L. Russo, G. Verga, Bari, 1995

 

N. Sapegno, (sta in) Ritratto di Manzoni e altri saggi,  Bari, 1981

 

L. Sciascia, (sta in) La corda pazza, Milano, 2007

F. Tozzi (a cura di S. Giovannuzzi), Fra D’Annunzio e Pirandello: scritti su Carducci, D’Annunzio, Pascoli, Verga e Pirandello, Firenze, 2007

V. Spinazzola, Verismo e positivismo, Milano, 1993

L. Spitzer, (a cura di C. Scarpati), Studi italiani, Milano, 1976   

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