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Una inquietante figura di impagliatore di animali muove la trama di questo romanzo, uscito per la prima volta nel 1976, per la Garzanti di Milano. 

L'autore, Ezio Comparoni, in arte Silvio d'Arzo, lo scrisse tra la fine degli anni trenta e l’inizio dei quaranta, ma non trovò nessun editore disposto a pubblicarlo. La storia dello studente Riccardo che, dalla campagna dove vive, si trasferisce a Bologna per andare all'università, e incontra un amico del padre, l’Arseni, appassionato di animali, che finirà per allontanarlo dalla famiglia, deve aver colpito in negativo gli editor dell’epoca. 

Una narrazione in terza persona, spesso basata, per quel che riguarda i contenuti, su una continua, quanto fittizia, contrapposizione di caratteri maschili, sostenuta da uno stile di scrittura semplice, lirico, dove è la descrizione, di paesaggi, di animali, di esseri umani, ad avere una funzione  fondamentale.

A contrapporsi all’Arseni, l’impagliatore che agli animali tiene più che agli esseri umani, ci sono due "domatori", come loro stessi si definiscono,  Enrico e Nemo, che alle bestiole sembrano tenerci, invece, troppo poco. 

Se la contrapposizione si rivela, da subito, fittizia, è perché l'impagliatore, proprietario gentile di scoiattoli e conigli, ha più di un lato oscuro. Gli accenni, che più volte fa, a una figlia cieca, che non vuole più saperne di lui, e che teme le sue mani (“questa figlia a un certo punto scappa perché le mani del padre le fan schifo”),  pur non diventando mai oggetto di approfondimento, lasciano intravedere un’ossessione cupa, mal trattenuta, al limite dell’incesto.     

Che cosa sia successo fra i due, tolto lo schifo che la ragazza provava, di cui l’uomo più volte racconta,  non lo sapremo mai.

Nei due fratelli, Enrico e Nemo, i“domatori”, saltimbanchi, suonatori, forse di gentilezza ce n’è poca, ma in compenso sembrano assenti le ossessioni. I due, che vivono nell’appartamento sottostante a quello dell’Arseni, sono fin troppo chiari: il loro lavoro non consiste in altro che nel far “...saltare una scimmia sopra un banco: e forse non soltanto saltare e fare mosse, ma qualcosa di così assurdo e banale o addirittura miracoloso a volte da far stupire la gente domenicale lì raccolta”.

Niente di straordinario nella loro esistenza, niente di significativo. 

Per far muovere la povera scimmia, ogni tanto, racconta l’Arseni, per provocare il miracolo, il domatore la punge “...con aghi da materassaio, appena appena, e il cucciolo cominciava un poco a tremare, forse a piangere e infine voleva scappar via e trovar lo spazio. E lui neanche lo pigliava subito per la coda o per le orecchie, ma solo dopo qualche minuto e a volte un’ora, per dargli la sensazione che era riuscito a sfuggirgli finalmente”.

Quel poco di intelligenza che gli esseri umani hanno, qui, a disposizione, usata per suscitare reazioni in una povera bestia, mite e inoffensiva. 

Le bestie: la scimmia di Enrico e Nemo; e poi il coniglio sulla spalla dell’Arseni, sempre terrorizzato; lo scoiattolo Rinic; la cavalla che il padre di Riccardo, lo studente, ha ucciso, vittime inconsapevoli della stupidità e delle ossessioni umane, esseri pieni di grazia, e la cui armonia, forza di attrazione, finiscono per passare spesso inosservate.

Un'armonia e una forza che l’autore traduce in ritmo,  trasforma in parole. Come quando scrive:   “Lo scoiattolo uscì rapido alla luce e apparve minuscolo e ridicolo, una cosa, fermandosi intontito poi in mezzo alla stanza come consumato o annientato dalla luce stessa: e forse potentissimo e grande poté anche apparire per un solo fugacissimo momento, per aver fatto dimenticare cose e idee e sentimenti anche grandi a quei due uomini e aver attirata su di sé magari l’attenzione degli oggetti”. 

Ma quando l’amore per le bestiole assume il carattere dell’idea fissa, come è nel caso dell’impagliatore, porta comunque con sé conflitti, morte, dolore. 

Una relazione che non permette vie di mezzo, quella con gli animali: o li si considera alla stregua di cose, un mezzo per contribuire al bilancio economico, quando non addirittura, e soltanto, cibo; o diventano interlocutori capaci, a volte, di dare un equilibrio all’esistenza, di dirigerla, governarla.

L'Arseni stravede per gli animali, tutti, fino al punto da impagliarli quando muoiono, e ama il suo scoiattolo in particolare, quel Runic, intelligente e furbo abbastanza da riuscire a fuggire e ad infilarsi nella casa di sotto, quella dei domatori.

Una fuga fatale.

Nel tentativo di addestrarlo, o chissà come, Enrico e Nemo, lo uccideranno.  E così quando l’Arseni lo troverà, morto, sopra la “...grande pentola blu e bianca”, per strada, nella spazzatura, ci sarà il primo scontro fra i tre uomini: picchiato a sangue, l’Arseni non riuscirà a pensare ad altro che ad andar via da quella casa.   

Rabbia, ignoranza, apatia, rassegnazione: un universo cupo e isolato, questo di Silvio d’Arzo, in cui le ossessioni degli uomini vengono ogni tanto alleviate dalla meraviglia, o dall’affetto, che provano nei confronti delle bestie, e più in generale della natura, i prati, la notte, le piante,  e dove il ruolo delle donne è, invece, tutto pratico, di conservazione, a qualsiasi costo. 

Non è solo l’Ernestina, la ragazza di cui Riccardo, lo studente, è preso all’inizio della storia, la commessa della cartoleria, a non capire perché mai l’Arseni abbia bisogno di vivere con tutte quelle bestie, e a suggerire: “Gli uomini possono averti fatto anche del male (...) ma non si può dimenticarli, penso. Credo che bisognerà stare invece in mezzo a loro, tutti i giorni, e usare anche le loro parole e i loro gesti e ridere anche come loro, così non ci faranno nessun male e non s’accorgeranno neanche di noi, forse. Ci lasceranno vivere, suonare…”, c'è anche la madre dello studente che, come la ragazza, non riesce a capire il fascino dell’isolamento, non riesce, neanche lei, a vedere la magica malia legata all'oscuro, e alla notte. Sono, entrambe queste donne, pensa Riccardo, lo studente, tutte prese, solo, dalle cose materiali, fino ad annullarsi: “… come cose dimenticate e mai esistite; o come sassi o immagini di sassi”.

Quello che l’Arseni trasmette al ragazzo è l’idea, il preciso sentimento, che non ci sia, non possa esserci verità nelle cose degli esseri umani, immersi come sono, tutti, nella quotidianità.

Da qui l’invito a lasciar perdere le donne, e l’Ernestina, prima di tutto, presa come è, lei, dal tran tran del lavoro e delle feste di paese, presa com'è dalla ricerca di un amore.   

Ed è bravo l’autore, qui, a sganciarsi dalle fisime dei protagonisti, dando alla ragazza dei tratti di autonomia e di originalità, proprio a partire dalla sua concretezza. 

Non solo Ernestina non si lascerà sottomettere dal giudizio dei due uomini, ma verso la fine del romanzo sarà attraverso il suo punto di vista, per mezzo di una lettera che scrive al nuovo amante, il Piadeni, un maestro di violino, per giunta un uomo sposato, che conosceremo il destino di Riccardo, così come la fine della storia con la sua famiglia.

Ed è proprio questo gioco che l’autore mette in atto, questa sua capacità di dare a ogni personaggio, bestia o essere umano che sia, una dignità, non solo letteraria, a fare di questa storia un significativo romanzo. 

Un po’ perché, sembra dirci, non c’è nessuna differenza, almeno in una storia come questa, per quel che riguarda sensibilità e capacità di incanto, fra esseri umani e bestie, e un po’ per le modalità che usa, quel suo affidare al caso tutte le esistenze, dalla più misera a quella più rilevante.

È per un caso, infatti, che la scimmia riesce, alla fine, a sfuggire ai suoi persecutori.  Loro si distraggono un attimo e lei sparisce. Così come è stato il caso a portare Riccardo sulle tracce dell’Arseni, e chissà che, alla fine, quest'ultimo non ossessioni lo studente come ha sempre fatto con la figlia, e come ogni tanto, forse, faceva con lo scoiattolo.  

E chissà se Riccardo, a sua volta, non riuscirà a fuggire.

Nessuno sguardo prevale sugli altri: la fine del piccolo Runic è dovuta alla sua eccessiva curiosità, all’insofferenza, forse, nei confronti di un proprietario che ha sempre troppo temuto di perderlo.

Silvio D'Arzo

Nato a Reggio Emilia, nel 1920, da padre ignoto e da Rosalinda Comparoni, bigliettaia in un cinema e cartomante, fu lei a iniziare il figlio alla passione per la lettura e la scrittura. 

Tra il 1934 e il 1935, giovanissimo scrittore, pubblica poesie e racconti (Luci e penombre, La valanga, Maschere. Racconti di paese e di città ) con lo pseudonimo di Raffaele Comparoni.  

Nel 1937, dopo aver frequentato il ginnasio e un anno di liceo, affronta gli esami per il diploma da privatista. Li supera e si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna.

Nel 1939, con alcuni amici appassionati, come lui, di letteratura, fonda il Club dei dodici (dal numero dei partecipanti) con l’intento di portare avanti iniziative e discussioni su temi e autori prediletti.  

Nel 1941 si laurea in glottologia con una tesi sul dialetto reggiano. 

Nel 1942 ottiene una cattedra di lettere in un liceo, e pubblica, per Vallecchi, il romanzo All’insegna del buon corsiero.  Viene arruolato nell’esercito. Nello stesso anno Garzanti rifiuta il romanzo Essi pensano ad altro.

È richiamato a Canzo, vicino Como, da soldato semplice.

Trasferito a Barletta, è destinato ai campi di concentramento, ma riesce a fuggire, con un commilitone, e a rifugiarsi a Francavilla al Mare.  

Dopo l’8 settembre del 1943 torna a Reggio Emilia.

È di questo periodo l’articolo, scritto per una rivista, intitolato Inchiesta sulla narrativa.

Subito dopo la Liberazione, nel 1945, riprende a insegnare e a collaborare a giornali e riviste letterarie. Pubblica un saggio: Invito a Conrad. 

Nel 1948 esce, su “L’illustrazione italiana”, una prima versione di Casa d’altri, intitolata però Io prete e la vecchia Zelinda.

Tra il 1950 e il 1951 la rivista “Paragone” pubblica suoi saggi, fra i quali, quello su Henry James e quello su T.E. Lawrence. 

Appassionato di letteratura americana e inglese, di Emilio Cecchi e di Henry James, di Ring Lardner, di Joseph Conrad e di Hemingway, Ezio Comparoni  muore di leucemia, nel 1952, a soli trentadue anni.

Nel 1940 un lontano parente della madre, Pietro Comparoni, l’aveva riconosciuto come suo figlio. 

Postumi usciranno, prima su rivista e poi in volume, Casa d’altri (nel 1952  sui “Quaderni di Botteghe Oscure” e nel 1953 per la Sansoni di Firenze), e il volume Nostro lunedì. Racconti, poesie, saggi (1960), forse la sua più completa raccolta di scritti.

Nel 1976, Garzanti pubblica Essi pensano ad altro. 

Escono, per Einaudi, nel 1978, Penny Wirton e sua madre e,  nel 1981, in una nuova edizione, Casa d’altri e altri racconti.

Del 1986 è il volume, Contea inglese: saggi e corrispondenza, a cura di Edoardo Affinati, per la casa editrice Sellerio di Palermo, che nel 1946 la Vallecchi aveva rifiutato. 

Del 2003 è l’edizione delle Opere a cura della MUP di Parma.

Libri utili

A. Bertoni,  F. Frasnedi, Introduzioni, in S. D’Arzo, Opere, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani, Parma, 2003

A. Bertoni, Scrittori da un ducato in fiamme: Delfini, D’Arzo e il Novecento, Reggio Emilia, 2016 

S. Calabrese, Silvio D’Arzo e l’immaginario popolare, Reggio Emilia, 1982

S. Carenza, Paesaggio e natura in Silvio D’Arzo, Reggio Emilia, 2021

R. Carnero, Silvio d’Arzo: un bilancio critico, Novara, 2002 

L. Giroletti, Silvio D’Arzo (1920 - 1952): la religione della scrittura,  Firenze, 1988

P. Lagazzi, Comparoni e l’altro: sulle tracce di Silvio D’Arzo, Reggio Emilia, 1992

A.L. Lenzi, Introduzione, sta in S. D’Arzo, Nostro lunedì di Ignoto del XX secolo, Modena, 1986 

A. L. Lenzi, Silvio D’Arzo: una vita letteraria, Reggio Emilia, 1977 

R. Macchioni Jodi, Mistero e magia di uno scrittore contemporaneo, Roma, 1989

R. Macchioni Jodi, Silvio D’Arzo, Milano, 1979

G. Malanca, L. Serra, Conoscere Silvio D’Arzo: l’uomo, lo scrittore, Reggio Emilia, 2003 

 

A. Manuelli, Genesi di uno scrittore, Reggio Emilia, 2014

 

L. Orsenigo, Evento fatale e opaca continuità del vivere nell’opera di Silvio D’Arzo, Cosenza, 1991 

 

E. Pellacani, Attualità di Silvio D’Arzo. Proposte, testimonianze, documenti, Reggio Emilia, 2011 

 

E. Vignali, Silvio D’Arzo scrittore fra la provincia e il mondo, Bologna, 2010  

 

G. Zanichelli, La parabola letteraria di Silvio D’Arzo, Reggio Emilia, 2019

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