
Chi immagina la letteratura, i romanzi italiani ottonovecenteschi, come qualcosa di totalmente diverso da certo cinema hollywoodiano - con tutto ciò che di buono e di cattivo porta con sé - o da certi libri americani, anche contemporanei, potrebbe, leggendo questo romanzo di Grazia Deledda ricredersi completamente.
I dialoghi semplificati, nella lingua scorrevole della quotidianità; l’uso della violenza come codice comportamentale; i legami sociali soggetti a un codice d’onore, non alla legge; lo stordimento da alcool come pratica esistenziale; la contrapposizione buono/cattivo tipica del melodramma; il lasciare senza fiato il lettore (lo spettatore) in una trama forte che è un continuo invito alla lettura (alla visione); la psicologia dei personaggi complessa quel tanto che basta perché il lettore, la lettrice (lo spettatore, la spettatrice) stabiliscano un’ identificazione; l’insistenza sulla descrizione di paesaggi, quasi sempre poco confortevoli; lo stesso paesaggio che, per potenza e particolarità, assume, spesso, le caratteristiche di un vero e proprio personaggio; e poi la vendetta, come motore delle relazioni umane, assieme al desiderio che inchioda uomini e donne al loro destino.
Ecco alcuni degli elementi che rendono la trama e i personaggi di Dopo il divorzio, libro che l’autrice sarda pubblicò nel 1902 (ripubblicato nel 1920, con correzioni e con un titolo diverso: Naufraghi in porto), così simili a quelle di un western alla Tarantino (The hateful eight, per esempio, con quel personaggio femminile, rinchiuso in poco spazio, che si rifiuta di obbedire alla volontà degli uomini; Kill bill, con quella protagonista che giura vendetta contro l’uomo che le fa del male, dicendo di amarla); oppure a quelle di un noir alla Memento, dove, al posto della memoria perduta del protagonista del film di Nolan (uscito nel 2000) troviamo l’impossibilità di muoversi, la costrizione, di un uomo, Costantino Ledda, rinchiuso in carcere, e che però registra tutto ciò che accade fuori, avendo stabilito un rapporto epistolare, all’insaputa di tutti, con la moglie Giovanna Era.
Il divorzio, come istituto giuridico, c’entra a mio parere fino a un certo punto in questo libro che è, prima di tutto, la storia di un omicidio che rischia di ricadere sulle spalle della persona sbagliata.
C’erano state, a partire dal 1878, varie proposte di legge, mai andate in porto e, nello stesso anno in cui il libro esce (1902), un decreto, mai convertito in legge.
Il dibattito ferveva nel paese perché spesso insostenibile era la violenza degli uomini sulle donne all’interno della famiglia. Altri due romanzi uscirono in quegli stessi anni.
Francesco Meleri aveva pubblicato, nel 1876, Il divorzio (in epigrafe una frase di Montesquieu, tratta da Le lettere persiane: «Nulla contribuirebbe all’attaccamento reciproco più del divorzio») e la giornalista e scrittrice Anna Franchi, nel 1902, Avanti il divorzio, un testo fortemente e drammaticamente autobiografico.
Ma nei romanzi di Deledda la violenza della comunità non sembra dipendere solo dalle relazioni umane.
Proprio come nel western, un genere assimilato all'epica per l'immediatezza e la facilità del racconto, gli esseri umani sono legati alla natura da qualcosa che va oltre la loro volontà.
Uomini e donne di qualsiasi età, i bambini, il paesaggio e gli animali domestici, le rocce e la polvere delle strade, il mare, persino le sanguisughe e gli uomini che se le procurano tenendo le gambe immerse nell’acqua paludosa per ore e ore, gli animali selvatici, i profumi piacevoli e gli odori sgradevoli, le ubriachezze moleste, le temperature atmosferiche, gli elementi del folclore, la musica, le strade mal ricavate, l'architettura, tutto viene, dal mestiere dell'autrice, legato in un unico disegno, in un’unica, solida, mappa geografico-fantastica da cui pare impossibile sezionare via il sentimento della vendetta e le pratiche ad esso collegate.
Costantino Ledda, il protagonista, non è accusato e giudicato sulla base di prove certe e reali ma solo perché, da ragazzino, ha subito la violenza dell’uomo assassinato, suo zio. Tutti, in paese, sono a conoscenza delle botte che ha preso. E proprio per questo, anche se lui si dichiara innocente, il giudice dà al pregiudizio valore di legge, e così facendo lo condanna. Chi altri potrebbe essere stato, se no?
Dal momento dell’arresto Giovanna Era torna ad essere oggetto del desiderio di Brontu Dejas, il vicino di casa. Ricco, viziato, l’avrebbe voluta per sé, prima che lei sposasse Costantino.
Sarà Bachisia, madre della Era, ad agevolare la richiesta di Brontu, e a convincere la figlia a risposarsi. Tra le sue aspirazioni c’è, infatti, quella di assicurarsi una vecchiaia confortevole.
Certo, a rendere possibile il nuovo matrimonio è il l’istituto del divorzio: Costantino è stato, infatti, condannato a trent'anni, c’è quindi motivo per una separazione definitiva. Ma in una società come quella che Deledda descrive non c’è spazio per considerare il matrimonio alla stregua di un “contratto”, così come voleva il Codice civile dell’Italia postunitaria (1865) riprendendo quello napoleonico del 1804 (“La legge considera il matrimonio un contratto civile”). Forti, potenti, comiche a volte, sono le descrizioni di vicini di casa e conoscenti alla notizia che Giovanna ha divorziato. La condanna è netta. La stanchezza di Dio, la paura del diluvio, quella del terremoto, delle vendette divine vengono usate per fermare i futuri sposi.
Il matrimonio è e resta, per quelle persone, un “sacramento”: quello che si contrae in chiesa, davanti al sacerdote, un patto che non si può spezzare.
Lo Stato, le sue leggi, il suo linguaggio, sono lontanissimi dal mondo che Deledda descrive.
Non manca, a far sembrare questo bel romanzo una sorta di western duro e potente, la figura di un uomo estremamente religioso, Isidoro Pane: pescatore di sanguisughe, cerca di insinuare, nelle scelte che uomini e donne fanno, la voce di Dio, un dio che però poco fa, almeno per buona parte della storia, per mettere al riparo i giusti.
La grazia e la capacità di raccontare di Deledda, assoggettano qualsiasi tema e circostanza a quello che sembra essere il suo soggetto preferito: il racconto di un ambiente stupido, gretto, conformista e feroce, spesso un piccolo paese, che trasforma qualsiasi desiderio, voglia, aspirazione dei singoli in gesto volgare, aggressione, umiliazione. Sarà, proprio come in una bella storia hollywodiana, l’amore dei due protagonisti a tenerli legati e a liberarli, nonostante tutto.
Grazia Deledda
Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871, in una famiglia benestante, ed è la quarta di sette figli. Frequenta fino alla quarta elementare, poi studia privatamente, è appassionata di letteratura e legge, già da ragazza, i «classici»: in particolar modo i grandi romanzieri della letteratura russa (Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev) e di quella francese (Balzac, Flaubert).
A pubblicare inizia prestissimo. Nel 1888 escono i primi racconti; dal 1891 collabora stabilmente con riviste e giornali (lavorerà per Nuova antologia, il Corriere della sera, L’illustrazione italiana) nel 1896 il romanzo La via del male viene recensito positivamente da Luigi Capuana.
Nel 1899 si trasferisce a Cagliari, dove conosce il futuro marito, Palmiro Madesani, impiegato dell’intendenza di finanza e originario della provincia di Mantova. Nel 1900 si sposano e vanno a vivere a Roma. Lui lascia il lavoro per diventare l’agente letterario della moglie. Per l’autrice è una sorta di liberazione: l’odio/amore per i luoghi di origine è un punto fermo della produzione deleddiana. Nel 1892 il padre è morto, e due dei suoi fratelli manifestano problemi psicologici e di inserimento (uno è alcolizzato, l’altro è stato denunciato dopo aver commesso piccoli furti).
È nella capitale che Deledda scriverà i suoi romanzi migliori (Dopo il divorzio, nel 1902, Elias Portolu, nel 1903, Cenere, nel 1904, Canne al vento nel 1913).
Nel 1927 vince (per il 1926), prima donna in Italia, il Premio Nobel per la letteratura. Ha scritto più di trecento novelle e trentacinque romanzi, oltre ai testi per i giornali, i saggi e le poesie. Da alcuni suoi volumi sono stati tratti film (Cenere, 1916, regia di Febo Mari, con Eleonora Duse; Proibito, 1954, di Mario Monicelli con Amedeo Nazzari) e opere per la televisione (Canne al vento, 1958, con Franco Interlenghi, regia di Mario Landi).
Muore a Roma nel 1936.
Libri utili:
Baldacci L., Introduzione alla letteratura italiana del Novecento, Fi, 1961
Bellonci G., Prefazione, in Grazia Deledda, Le opere, Torino 1964
Cecchi E., Grazia Deledda, in Prosatori e narratori, in Storia della letteratura italiana. Il Novecento,
Milano, 1967
Croce B., La letteratura della nuova Italia, Bari, 1943
Dedola R., Grazia Deledda. I luoghi, gli amori, le opere, Roma, 2016
De Giovanni N., Grazia Deledda, Alghero, 1991
Dolfi A., Grazia Deledda, Milano, 1979
Dolfi A., Rovigatti F., Viola G. E., (a cura di) Grazia Deledda. Biografia e romanzo, Roma, 1987
Farnetti M. Chi ha paura di Grazia Deledda: traduzione, ricezione, comparazione, Roma, 2010
Flora F., Dal romanticismo al futurismo, Mondadori, Milano, 1925
Fois M., (prefazione) Grazia Deledda, Il paese del vento, Nuoro, 2007
Giacobbe M., Grazia Deledda: introduzione alla Sardegna, Sassari, 1999
King M., Grazia Deledda, a legendary life, Leichester, 2015
Lombardi O., Invito alla lettura di Grazia Deledda, Milano, 1979.
Lutzoni S. (a cura di) Grazia Deledda, Romanzi, (prefazione di M. Onofri), Nuoro, 2010
Olla G., (a cura di) Scenari sardi: Grazia Deledda tra cinema e televisione, Cagliari, 2000
Piano M.G, Onora la madre: autorità femminile nella narrativa di Grazia Deledda, To, 1998
Rasy E., Tre passioni. Ritratti di donne nell’Italia unita, Mi, 1995
Russo L., Grazia Deledda, in I narratori, Roma, 1923.
Sapegno N. (a cura di), Grazia Deledda, Romanzi e novelle, in I Meridiani, Milano, 1972
Zoja N., Grazia Deledda: saggio critico, Milano, 1939